Come una fiammeggiante e macabra ballata in continua oscillazione tra il blues e il folk, sul campo di battaglia dello scontro tra black live matters e suprematismo bianco, I peccatori, la nuova e ambiziosa opera di Ryan Coogler dopo il dittico sulla saga Marvel di Black Panther, stordisce e lascia un misto di fascinazione e perplessità lungo i suoi talvolta faticosissimi 130 minuti: ambientata lungo le sponde del Mississippi degli anni ’30, possiede un’ipertrofia di segni che rimandano a vari generi, come il gangster movie, il noir, il film storico, il mélo in costume, il musical, fino ad arrivare a svelare e ad imprimere con una certa violenza audiovisiva la propria sostanza di horror metafisico. I protagonisti sono due fratelli gemelli, sdoppiati nella fisicità massiccia di Michael B. Jordan grazie ai prodigi della CGI (antesignano da questo punto di vista Armie Hammer nel ruolo sia di Cameron che di Tyler Winklevoss in The Social Network), che tornano ebbri di soldi e rivalsa nella cittadina natia dopo aver fatto un giro tra la criminalità organizzata delle mafie italiana e irlandese a Chicago. Smoke e Snack Moore non vogliono però imporre la loro prepotenza o rivendicare potere o controllo, ma creare uno spazio di libertà e di espressione per una comunità afroamericana esposta alle vessazioni e alle torture del locale Ku Klux Clan.
All’interno di una specie di capannone riadattato e affittato loro da un mellifluo bianco che probabilmente vuole tendergli una trappola, allestiscono infatti un sala da ballo e da gioco per i neri della zona, chiamando in supporto vecchi amici, parenti, amanti, i componenti ritrovati di una famiglia non di sangue, ma che nel sangue delle vergate e della schiavitù ha ritrovato il bisogno di riscatto attraverso la celebrazione di una fratellanza e di una sorellanza.
Pur avendo a disposizione già tanta carne al fuoco per far girare il proprio film, Coogler ha deciso di trasfigurare l’elemento politico della discriminazione razziale dentro una chiave horror, come il cinema ha spesso fatto anche con altre questioni e pulsioni che toccano i nervi scoperti della società, a cominciare dalla fine degli anni Sessanta. E uno dei topos che mette in movimento il meccanismo del racconto o, come in questo caso, gli fa cambiare rotta e final destination, ha a che fare con la minaccia del contagio scaturita dall’incontro con un’entità malefica maledetta. I portatori in carne e ossa più emblematici di una tale sciagura sono gli zombie (La notte dei morti viventi di George A.Romero è giustappunto di un significativo 1968) e i vampiri (Il buio si avvicina di Kathryn Bigelow), con la differenza che i secondi sono guidati nelle loro azioni non solo da un’ottusa e famelica ferocia, quanto da un vero e proprio piano di espansione del regno delle tenebre sulla terra, in una sorta di condanna condivisa in eterno di morti che camminano e, in questo caso, danzano, cantano e suonano. La porta dell’accesso o del limite tra una dimensione e l’altra diventa così la musica, che per i neri è il blues praticato come forma di culto ritmico, psicoemotivo, viscerale e trascendentale per sopravvivere al massacrante lavoro nelle piantagioni, con la risonanza ancestrale ed esoterica della mitologia woodoo importata dall’Africa terra madre.
Coogler fa incarnare questo ponte tra sacro e profano, tra arcaico e presente di una specifica situazione culturale e antropologica dal personaggio di Sammie, il “Preacher Boy”, ovvero il figlio del pastore della Chiesa, combattuto tra la fedeltà al precetto paterno e la trasgressione materializzata nelle mani della sua chitarra con la quale intonerà un canto così fumante e lussurioso da attirare una triade di demoni bianchi e contagiati, venuti a professare la loro evangelizzazione al contrario. In realtà non è molto importante soffermarsi sull’esplicazione di una trama che presenta o accenna le storie di ciascuno dei personaggi coinvolti nella coralità della vicenda, intrecciate con quelle dei gemelli Moore; la prima parte, a parte l’incipit vero e proprio piuttosto folgorante, che prepara al lungo viaggio verso, la notte è fin troppo schematica e verbosa e non da l’idea del notevole rischio che Coogler si prende nella sequenza centrale della festa: un densissimo momento che travalica i confini spazio temporali e brucia letteralmente le mura e le fondamenta di quell’improvvisata ballroom di legno insufficiente a contenere la fremente carnalità degli uomini e delle donne che vi performano all’interno, abitato da presenze del passato e del futuro, i danzatori posseduti e sciamanici delle tribù africane e i ballerini free style delle battle di hip-hop, con l’ incursione persino di una maschera del teatro dell’Opera Cinese (ad indicare la radicale e stratificata contaminazione che nutre le radici del profondo Sud statunitense, la sua caleidoscopica messa in scena)
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Nessun flashback o flashfoward comunque, ma la simultaneità di un atto creativo che ha introiettato e processato la magmatica materia sonora che è stata generata precedentemente e che contiene i prodomi della forma che prenderà poi; anche la disponibilità a far entrare a un certo l’assalto vampiresco dopo che una parte di sopravvissuti ha scelto di barricarsi e di attendere l’alba (come da conosciutissima leggenda, i vampiri hanno bisogno di essere invitati per poter varcare la soglia di una casa e vengono bruciati dalla luce del sole) non va letta solo come un modo per ricondurre la trama sui binari di uno svolgimento e di una conclusione, con una tensione a volte perduta, a volte fin troppo accelerata. Esplode infatti, nella sanguinolenta battaglia del prefinale a colpi di morsi e paletti conficcati nel cuore, la necessità di unire l’aldilà e l’aldiquà che si espandono dalla restrizione binaria di vivi/morti o inferno/terra e mettono in relazione il linguaggio dei corpi con quello della musica, i sensi con la spiritualità ( i vampiri bianchi si cimentano nel suonare una specie di folk dagli echi irlandesi). Avvicinamento negato ma non completamente sconfitto, anche perché, come già per Romero e Bigelow ma anche per il Sam Raimi de La casa, i mostri hanno le sembianze delle persone che amiamo, che abbiamo amato e che ameremo comunque in qualsiasi manifestazione fisica della vita; inoltre, con una riflessione politica che è possibile cogliere tra le pieghe del rutilante e stordente grand Guignol, la vera affermazione e rivalsa dei neri schiavizzati sono consistite proprio nel sottrarsi a un ineluttabile destino imposto loro dall’immaginario bianco e occidentale di dannati o redenti, di virtuosi e peccatori. I graffi “demoniaci” che Il Sammy, ormai anziano e affermato chitarrista, continua a portare sul proprio volto, a parte essere il ricordo permanente di una notte di terrore e godimento, sono la tangibile e visibile testimonianza di un’arte che ha avuto il coraggio di guardare negli occhi la propria nemesi e di integrarla nella propria voce. Una performance sublime che non rinnega la “Sympathy for the devil”, e che anzi con il diavolo e i suoi seguaci sa bere ancora una birra insieme, al tavolo ambivalente di un ricordo e di un’esaltazione,
In sala dal 17 aprile 2025.
I peccatori (Sinners) – Regia e sceneggiatura: Ryan Coogler; fotografia: Autumn Durald Arkapaw; montaggio: Michael P. Shawver; musica: Ludwig Goransson; interpreti: Michael B. Jordan, Hailee Steinfeld, Miles Caton, Wunmi Mosaku, Jack O’Connell, Buddy Guy, Delroy Lindo; produzione: Zinzi Coogler, Sev Ohanian, Ryan Coogler per Warner Bors. Pictures; origine: USA, 2025; durata: 138 minuti; distribuzione: Warner Bros Italia.