Le Vourdalak di Adrien Beau (Settimana della Critica – Concorso)

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In principio era un racconto di Aleksej Konstantinovič Tolstoj, scritto nella lingua di Rousseau nel 1839. Il suo titolo originale era La famille du vourdalak. Fragment inédit des mémoires d’un inconnu ed era un testo che se ne stava a crocevia tra due mondi: quello russo e quello francese, una no man’s land assai scomoda, se si pensa che la sua stesura coincide con l’epoca delle guerre napoleoniche.
In realtà, non sarebbe neanche del tutto sbagliato dire che più che un bivio, quello sperimentato dal Tolstoj minore (solo cugino dell’autore di Guerra e Pace) è piuttosto un quadrivio dal momento che la narrazione mette in urto lo spirito agnostico e razionale dell’Illuminismo con le preoccupazioni di un Preromanticismo riletto attraverso la sua espressione più peculiare: quella del romanzo gotico. Nelle pagine dello scrittore russo, quindi, si fronteggiano, da una parte, le conquiste dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers che tutto riportano in seno a verità esperibili coi sensi e verificabili col metodo scientifico, e, dall’altra, l’inspiegabilità di fenomeni cui solo le superstizioni hanno saputo dare un nome.
Ed ecco, quindi, il Vourdalak del titolo: una specie di vampiro con peculiarità tutte sue che lo allontanano dal canone che verrà fissato, molti anni dopo la morte di Tolstoj da Bram Stoker con il suo Dracula. Il mostro in questione, infatti, non sugge il sangue dalla prima vergine che gli capita a tiro, ma tende, piuttosto, a ritornare in seno alla famiglia d’origine, perché, a quanto pare, l’emoglobina dei congiunti ha un sapore assai migliore. L’elemento orrorifico viene, quindi, esasperato e come magnificato dal fatto che il ritornante uccide prima le persone che più ha amato e che, per questo, più facilmente si concedono al suo morso.
Nella logica dell’evoluzione del genere, quindi, il vourdalak è lo sviluppo coerente del masticatore di sudari che sottrae energia vitale dagli amati, ma lo fa senza muoversi dalla tomba in cui è stato rinchiuso.

Da questa breve novella, restando al solo contesto italiano, già Mario Bava aveva tratto una delle sue opere più significative, uno degli episodi (per inciso il più metacinematografico) che componevano quel capolavoro che è I tre volti della paura. Ma c’era stato anche Giorgio Ferroni che aveva spostato la narrazione in quel della Jugoslavia degli anni ’70 (anche se il film era stato girato nei pressi del Lago di Bracciano), realizzando La notte dei diavoli, opera oggi meno conosciuta. Tocca ora ad Adrien Beau l’arduo compito di produrre una pellicola che sappia far dimenticare almeno per un poco le splendide inquadrature del maestro dell’horror italiano.

L’impresa, ammettiamolo, riesce in parte. Il regista francese, coadiuvato da un cast perfettamente centrato, gioca di sponda con un’opera che sa mettersi a metà strada (il quadrivio diventa un crocicchio che avrebbe, forse, bisogno di una bella rotonda) tra le dinamiche del cinema di genere e le preoccupazioni di un lavoro assolutamente autoriale. Il primo passo in questa direzione viene compiuto dalla fotografia che cerca di sintonizzarsi sui toni della pittura preromantica, con una forte predominanza di toni bluastri e freddi a rendere le insidie dell’ombra e della notte. A queste, invano, si oppongono i cantucci di focolare e le candele che smoccolano le mezzetinte aranciate della quiete domestica presto insidiata dalla presenza ambigua del mostro. Il gioco è reso ancor più evidente dalla composizione spesso teatrale del quadro, laddove i personaggi entrano ed escono di scena secondo dinamiche che alludono a fondali e quinte da palcoscenico e laddove il vourdalak è un burattino grottesco (azionato e doppiato dallo stesso regista) la cui dimensione meccanica, lungi dall’essere celata, viene anzi esaltata. Il tutto a conferire alla narrazione un andamento liturgico e oratoriale (evidente nella scena del lamento funebre che accompagna le esequie delle prime vittime) che è spesso altamente suggestivo.

Adrien Beau usa il racconto di Tolstoj per rilanciare un discorso che strizza l’occhio alla contemporaneità e all’impossibilità di spiegare il mondo che ci circonda. In questo senso, il Marchese d’Urfè, dignitario della Corte del Re di Francia, malcapitato quasi protagonista dell’opera (ottimamente interpretato dall’attore svizzero Kacey Mottet Klein) non solo rappresenta l’epicedio del mondo culturale illuminista e aristocratico che perisce sotto il montare di un irrefrenabile sensismo erotico già tutto proiettato verso le pulsioni dell’Ottocento, ma anche il crollare delle certezze del Novecento e la conseguente resa al postmoderno. Di qui assume senso l’ambiguità tra attrazione e repulsione che caratterizza tutta l’opera e che si respira in una certa fluidità delle dinamiche sessuali a partire dal giovane Gorcha (Vassili Schneider), inizialmente scambiato per una donna, fino ad arrivare al personaggio più conturbante, quello di Zdenka che eredita dal pater familias la maledizione del mostro, trasferendola, però, in quella che è una palese ribellione ai valori del patriarcato, nel mondo dell’alta aristocrazia. Si tratta, a tutti gli effetti, non solo del più significativo stravolgimento che il film compie rispetto alla pagina scritta – e che forse allude al successivo capolavoro dello scrittore russo, Upyr’ (Il vampiro di due anni successivo e, questa volta, in russo) -, ma anche del più intrigante appiglio alla modernità evidente sin dall’inizio nel tratteggio del personaggio (interpretato da Ariane Labed), a metà tra strega femminista e personaggio tragico. Non è un caso che siano proprio i dialoghi tra Zdenka e il Marchese quelli in cui più alto si fa il tasso di acida ironia e turbamento erotico, mentre il finale immaginato da Beau sembra alludere, con perfetto spirito citazionista, a quello del Nosferatu di Herzog (punto di riferimento costante di tutto il film) dove il male ugualmente trionfava, spargendosi nel mondo sulle note del Sanctus dalla Messe Solennelle di Gounoud.

Nel complesso Le Vourdalak non è certo un capolavoro compiuto, ma si rivela essere un’opera di grande fascino. Contraddittorio e, forse anche per questo, straordinariamente ricco.


Le Vourdalak; Regia: Adrien Beau; sceneggiatura: Hadrien Bouvier, Adrien Beau tratta da La famille du vourdalak. Fragment inédit des mémoires d’un inconnu di Aleksej Konstantinovič Tolstoj; fotografia: David Chizallet; montaggio: Alan Jobart; interpreti: Adrien Beauù, Grégoire Colin, Claire Duburcq, Ariane Labed, Kacey Mottet Klein, Erwan Ribard, Vassili Schneider; produzione: Judith Lou Lévy, Eve Robin (Les Films du Bal), Lola Pacchioni, Marco Pacchioni (Master Movies); origine: Francia, 2023; durata: 90′; webinfo: Scheda della SIC

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