Tra le uscite di questa fiacca estate cinematografica, Miller’s Girl è sicuramente una delle più insolite e inattese: opera prima come regista e sceneggiatrice dell’americana Jade Halley Bartlett, deve probabilmente la distribuzione fuori dai confini nazionali alla presenza nel ruolo della protagonista principale di Jenna Ortega, affermatasi tra un pubblico di giovani nella serie Mercoledì, spin off sulla figlia de La famiglia Addams, la celebrata dark comedy ispirata alle strisce del vignettista Charles Addams e tradotta, a partire dagli anni ’60, in adattamenti televisivi e poi cinematografici . E un certo allure perverso è rimasto addosso alla Ortega (e le auguriamo di liberarsene presto) anche in questo film, nel personaggio di Cairo, precoce e sfacciata adolescente alle soglie della maturità scolastica e del fatidico passaggio al college ( che per i giovani statunitensi è ancora il rito fondativo dell’età adulta, con l’uscita ufficiale dalla famiglia d’origine e dalla casa genitoriale); al cinismo mortifero e supponente della rampolla Addams, sostituisce un’ambizione di seduttrice, da Lolita dell’era post Me Too, funzionale non tanto ad ottenere un risultato pratico, quanto determinata ad affermare un potere: la possibilità di provocare e controllare il mondo degli adulti. E il gioco le riesce facile se il mondo degli adulti è rappresentato dal non emerito professore di letteratura Jonathan Miller, che fa i conti con una carriera da scrittore frustrato, una moglie sensuale ma troppo concentrata su se stessa e un impiego in un piccolo liceo di una cittadina del Tennessee dov’è ambientata la vicenda, un luogo descritto dalla stessa Cairo come desolata terra del nulla da cui evadere al più presto.
La ragazzina infatti, al contrario della media dei suoi coetanei, possiede una passione per la lettura e la scrittura che affascina questo novello Humbert Humbert nabokoviano, il quale non è indifferente neanche alle mossette, alle strizzatine d’occhio e agli ammiccamenti. Dal canto suo Cairo, con la complicità della sua migliore amica (bisessuale e con la quale avrà una piccola avventura, tanto per non farsi mancare niente), mette in crisi il piccolo uomo esposto alle sue fragilità, ma è qui che la regista rimane volutamente (?) ambigua sulla versione dei fatti. Il racconto è introdotto e portato dalla voce off di Cairo, ma a un certo si sovrappone a ciò che lei sta scrivendo, che sembra essere più che altro la trasfigurazione in chiave evocativa e simbolica dei suoi sentimenti, dall’insorgere dell’attrazione per a dire il vero il poco attraente e opaco Miller, fino all’insinuare il dubbio di un vero e proprio contatto fisico (un bacio? un rapporto sessuale?). Tutto resta in un rappresentazione forse reale o forse sognata, sicuramente desiderata e sublimata attraverso le parole da entrambi, che Bartlett cerca di rendere in una frammentazione delle immagini e degli immaginari.
Di spunti interessanti ce ne sono dunque ma la patina da telefilm per teenager che aleggia tra le ben più selvagge e vivide lande del Sud, e non solo per colpa della Ortega, ne affievolisce la carica eversiva; la possibilità che quella zona grigia dove si incontrano le fantasie post puberali da diversi punti di partenza- la tarda e regressiva adolescenza masturbatoria di lui, il farsi corpo desiderante e desiderato di donna per lei- si manifesti nella destabilizzata potenza di un detour su quel piccolo mondo antico di accennate e soffocate rivolte contro l’imperante bigottismo sottotraccia. Ben presto entriamo infatti nel campo rassicurante dei dilemmi morali che tanto piacciono alla drammaturgia americana anche derivativa come questa, sul professore che ha manipolato oppure è stato manipolato, l’inchiesta della scuola, la moglie che torna a guardare il marito solo nel momento della presunta colpevolezza. E lui, Miller, interpretato con precisione nella reticente mediocrità come nei timidi slanci da Martin Freeman, un po’ quello che sarebbe potuto diventare da grande il Benjamin di Dustin Hoffman ne Il laureato (ma senza il liberatorio finale in chiesa), resta schiacciato sulla dimensione del “caso” e dello “scandolo”, comunque limitato ad un recinto quasi teatrale di pochi personaggi: oltre a Cairo e la sua amica, la moglie, la preside e l’amico di Miller, l’insegnate di educazione fisica anch’egli attirato, peraltro in maniera compiaciuta, nella rete delle due ragazzini. Questa assenza di contesto è pure una scelta curiosa perché definisce meno i margini dello spazio relazione tra Cairo e Miller, i quali potrebbero essere tranquillamente i protagonisti di un racconto contenuto nella testa della ragazza che usa lo spunto offertole dal suo prof., scrivere un racconto nello stile del suo autore preferito ovvero Henry Miller, tra i più controversi e censurati nei puritani Stati Uniti, come viatico dalla fiction alla realtà. E quello che succede dopo è un conseguenza di tale scelta dove però l’imputazione per “comportamento inappropiato” è assai meno interessante degli abbandonati percorsi mentali tra vittima e carnefice, con un previsto e continuo ribaltamento dei ruoli.
L’ambiguità si fa sfocatura e il non posizionamento non è retto da un’analisi abbastanza complessa dei personaggi: Cairo vive sola, nell’assenza dei genitori e nell’opulenza di una tenuta che sembra assorbita dalla folta vegetazione circostante e dalla quale lei sembra emergere iconograficamente come una ninfetta indifferentemente crudele da un lato e bramosa di essere vista e amata dall’altro. Perfetta esponente della smaliziata generazione Z si potrebbe dire, ma con quella spiazzante sensibilità retrò verso i libri cartacei e lo scrivere a penna sui fogli di carta, un altro aspetto che poteva essere utilizzato alla maniera di una suggestione asincronica tra il tempo frenetico e contemporaneo dei social e quello archetipico e rallentato delle parole scritte a mano. La compensazione di un gap generazionale tra il pensare e l’esprimere il proprio pensiero. Ma il film si fruisce e si dimentica con la velocità di un scroll su una chat di WhatsApp, nonostante un ammiccante e vezzeggiante controsenso nel finale: l’utilizzo di “At Seventeen“, brano molto conosciuto negli USA, di un’ormai dimenticata cantautrice, Janis Ian che celebrava le disillusioni adolescenziali di una ragazza che non poteva ambire all’amore come le reginette di bellezza…un’immagine non proprio adatta alla figura languida della Ortega, già incoronata reginetta dark in attesa di consacrazione o già ripetizione?) nell’imminente, nuovo Beetlejuice tim burtoniano.
In sala dal 1 agosto 2024
Miller’s girl – Regia e sceneggiatura: Jade Halley Bartlett; fotografia: Daniel Brothers; montaggio: Vanara Taing; musica: Elyssa Samsel; interpreti: Martin Freeman, Jenna Ortega, Bashir Salahuddin, Gideon Adlon, Dagmara Dominczyk, Christine Adams; produzione:Good Univers, Lions Gate Film, Point Grey Pictures; origine: Usa, 2024; durata: 93 minuti; distribuzione: Lucky Red.