Mutiny in Heaven: The Birthday Party – Nick Cave  di Ian White

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La storia di un tour autodistruttivo: ripercorrendo a ritroso il senso, la pratica e la performance delle ultime esibizioni dei the Birthday Party durante la turnée australiana del 1983, quella che annunciava, sul palco appunto, lo scioglimento della band, è possibile leggere tutta la vicenda umana e artistica di questi quattro ragazzi di Melbourne, tra i quali spiccava l’allampanato e allucinato Nick Cave degli esordi. E Mutiny in Heaven: The Birthday Party – Nick Caveil documentario diretto da Ian White fa intuire la pericolosità selvaggia (in Australia) e borderline (in Europa) di un’esperienza che fin nel nome richiama la dimensione dell’happening o, per restare in ambito di immaginario cinematografico, dell’Hellzapoppin’, il cabaret dell’inferno nel quale ad avere la meglio sono gli impulsi, gli sfoghi, le attitudini fisiche e sonore di un’ epoca,  quella del punk e del post punk a cavallo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 (ai limiti della definitiva svolta new wave della seconda metà del decennio, con il nucleo centrale e pulsante nell’anglofona City londinese ).

La struttura del racconto segue un ordine strettamente cronologico, pur aderendo al caos dei suoi protagonisti, e parte da un gruppo di compagni di scuola ( Cave, Mick Harvey, Phil Calvert e Tracy Pew  a cui inseguito si unì Rowland S. Howard) che scelgono dall’inizio una denominazione in contropiede, Boys Next Door : in realtà , la loro musica e le loro esecuzioni dal vivo, vero marchio a ferro e fuco di un’identità in fieri, rappresentavano la polarità opposta dell’impressione dei bravi ragazzi della porta accanto; già completamente immersi in un mood pre punk, siamo ancora nel 1975, questi post adolescenti si ispirano ai tormenti e alla disperazione vissuta ma non patita di un Johnny Cash man in black corpo e anima, una sorta di vate ante litteram, se non per sound o scrittura dei testi ma per un fondo oscuro e minaccioso di deriva esistenziale, della musica dark e gotica (nata a sua volta dalle ceneri del punk e dall’altrettanto avanguardistica produzione di Nico appena uscita dei Velvet Underground). Il film di White è cosi attraversato da questa linea nera con un largo e suggestivo uso di fotografie nelle quali, come in un album scorporato dai margini di una cornice e lanciato verso lo sguardo alla maniera di una scheggia in viaggio, si viene colpiti dalla trasformazione, quasi trasfigurazione fisica, dei componenti del gruppo. Dai corpi e i volti ancora in debito nei confronti di un bocciolo puberale appena dischiuso, alle animalesche e livide apparizioni sui palchi londinesi e poi berlinesi, prima di tornare, in reverse, alla bruciante, ma nel loro caso notturna e non assolata, natia terra australiana. Per non chiudere ogni aspetto nel segno molto forte della corporeità, il regista si serve allora anche del fumetto, l’animazione chiaroscura e sublimale di un tragitto on the road che talvolta, dal racconto off e on ( e la faccia smunta e asimmetrica di Rowland Howard, scomparso nel 2009, trasmette veramente un sussulto  di apocalittica implosione), mette veramente i brividi. Quei mesi a Londra, dove si erano recati in cerca di un supporto e di uno spazio che l’iconoclastia punk non concedeva se non a rischio della propria stessa vita, tra l’indigenza famelica non solo nella chiave simbolica di successo e affermazione, ma anche della sopravvivenza quotidiana, messa però parallelamente a confronto/scontro con la necessità di esibirsi, suonare non solo, e non tanto, gli strumenti, una partitura, una canzone.

L’attitudine di Nick Cave, che da qui si plasma  e che successivamente, e conseguentemente, è stata prosciugata dal tempo e dalle ferite in uno stato più dolente e straziante, prende piede nel flusso sfrenato e svaccato del soggiorno- termine quanto mai inappropriato vista la cifra mobile, nomade e situazionista della band- in una Londra dove accesso e eccesso andavano di pari passo; anche se forse mai, fino a quel momento, con una brutalità e una nudità – uno dei pezzi manifesto si chiamava Nick the stripper – esasperate dal contagio, almeno secondo la giustapposizione dei materiali d’archivio costruita da White, tra la primigenia e incontenibile forza naturale portata da una realtà sconosciuta, vasta e magico/esoterica come l’Australia e la tendenza urbana della Metropoli occidentale al disagio e al degrado sotterraneo. Un malessere sfogato, ingerito e vomitato dall’uso e abuso di droghe , delle quali in particolare Cave divenne addicted, peraltro proprio di quell’eroina imprescindibile nel suo farsi dal doversi procurare un buco, un varco, una ferità putrescente e a continuo rischio di marcitura, deperimento e morte. Lungi dall’essere moralista, o dal far ricavare una  morale anche basica sulla malparata di un vita sesso e droga, White crea invece un collegamento efficace,  tra la scelta di un’eccellente repertorio che ha avuto a disposizione, con la parte performativa, artistica, espressiva di quel cumulo di rabbia e sofferenza, che non veniva trattenuto o consumato solo tra le pareti di una stanza o di un camerino ( luoghi dove comunque si celebravano gli scontri anche egotici tra Nick & co., fino alla rottura e lo scioglimento), ma celebrato davanti ad un pubblico, spesso insultato, provocato, preso per la collottola con il cavo del microfono , nella potenza liberatoria delle energie che ne scaturivano. Lasciano ancora senza fiato le immagini  del videoclip per Nick The Stripper, con lo scheletrico e posseduto Cave che espone sul proprio petto, nella circolarità ossessiva di un danza satanica di morte e di rinascita, improperi e bestemmie sgrammaticate anche in italiano. Forse non c’è stato nulla di più profondamente, sincreticamente e radicalmente punk-dark-gothic tutto insieme e tutto esploso, o di più, oralmente espulso, di quell’esibizione filmata e registrata in una sola notte, e in condizioni di rischio per l’incolumità dei partecipanti, inclusi dei veri degenti di un ospedale psichiatrico. Ed è proprio nell’esasperazione smembrata e furiosa di un tale climax permanente e infine insostenibile ( lo stesso Howard riconosce quanto fossero esausti nell’essere forzati a mantenere quel livello di frenesia e sovraeccitazione, mai veramente ricompensato sul piano economico , verso il quale c’era tanto l’attrazione della necessità quanto il rifiuto anarchico ) che la musica eccede il suo status di musa e di ispirazione e si incarna e si disperde in un afflato vitale ed energico nonostante le contingenze e le circostanze.

Poi, dopo l’ammutinamento collettivo di un paradiso allestito come un cabaret dell’inferno, saremmo tornati a sederci tristemente affianco a Nick Cave e a chiederci se fosse davvero lui l’unico che stavamo aspettando.

In sala il 2-3-4 dicembre 2024


Nick Cave-Mutiny in Heaven: The Birthday Party  – Regia e sceneggiatura: Ian White; fotografia: Craig Johnston; montaggio: Aaron J.March; musica: J.P. Shilo; produzione: Greg Bakley, Ian White; origine: Australia, 2024; durata: 88’; distribuzione: Nexo Studios.

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