Probabilmente tutti i cinefili ricorderanno il volto luminoso e aperto e gli occhi spalancati dallo stupore e dal tremore della scoperta della (sua) verità di Hortense in Segreti e bugie (1996): quasi trent’anni dopo ritroviamo quel volto appartenente alla stessa attrice, Marianne Jean Baptiste, cambiato di segno e di umore: in Scomode verità ( un titolo italiano che arrotonda il più secco Hard Truths “Dure verità”) Mike Leigh, che l’aveva inquadrata nella quieta dignità di una figlia adottata alla ricerca della propria storia, ne svela letteralmente l’altra faccia. Questa volta Marianne si chiama Pansy ed è una donna di mezza età che vive barricata dentro se stessa, a cominciare dal luogo più privato e più intimo, quello della camera da letto, in cui lo stato di depressione permanente che vive la costringe a rinchiudersi, per obliare il dolore con il sonno. Ma non si tratta di un riposo che azzittisce i tormenti e gli spasmi di quel dolore acutamente e profondamente sintonizzato. Come una sorta di continue apnee e riemersioni, Leigh filma i ripetuti risvegli di soprassalto di Pansy, non corrispondenti alla fine di un incubo, ma al loop interminabile di un’ansia che la divora dall’interno, con l’incubo in prospettiva di un fine pena mai. Forse mai in precedenza il regista inglese aveva preso cosi di petto, in maniera frontale e cruda, la condizione di fragilità e di solitudine nella quale hanno spesso versato i suoi personaggi. Non c’è ad esempio il filtro della speculazione filosofica e dell’atteggiamento venato da un maledettismo anti sistema del vagabondo Johnny in Naked-Nudo. Ci troviamo di fronte a quella che viene comunemente asserita nella definizione di gente comune, descritta con precisione attraverso la cornice della piccola borghesia, o meglio di un proletariato che sembra aver avuto un minimo riscatto sul piano sociale, alla quale appartiene. Il marito si occupa di sgomberare le case con il suo furgone, mentre il figlio non ha un’occupazione precisa, come in realtà non sappiamo molto della stessa Pansy da questo punto di vista. È come se Leigh volesse che a raccontare di lei fossero le coordinate dell’ambiente in cui vive: l’appartamento su due piani con giardino di un sobborgo di periferia e soprattutto il controcampo della sorella minore, Chantelle, che si trova in una posizione di maggiore tranquillità e inclusione per lei e per le due figlie, e che dunque mantiene un equilibrio che però non diventa mai formalità o distacco; al contrario emerge una sentita, autentica empatia nei confronti di quella parente cosi furiosamente addolorata e concentrata in maniera autoreferenziale su di sé; un sentimento che è l’ accesso all’abbandono e al vero riposo per Pansy, quell’abbraccio caldo che ama anche senza capire.

Ma la descrizione del contesto, anche se può apparire solo di sfondo, non è mai secondaria o scontata nel cinema di Mike Leigh che assume una connotazione politica nel dire qualcosa di molto preciso, nel proporre un collegamento tra paesaggio urbano e dimensione umana; il nucleare, insondabile disagio di Pansy, della quale non conosceremo mai il contenuto dei terribili dormiveglia, è collegato con quello che ruota intorno a lei e ne amplifica la sensazione di impotenza e di conseguente, reattiva rabbia. Nella prima parte, non c’è (auto) censura verbale rispetto alla sgradevolezza reattiva di un fiume di parole che rivolge contro familiari, conoscenti, sconosciuti. Si tratta, appunto di una reazione che, per quanto corra il rischio di un’esagerazione e di una sottolineatura ai limiti del didascalico (come se Pansy avesse l’istrionico bisogno di mettersi in scena, peraltro ponendo la questione dell’approccio teatrale della regia di Leigh), dipende dagli impulsi e dalle provocazioni passive del mondo che la circonda, come percezione e anche come stato delle cose.
E la figura muta, smunta e triste di Curtley (David Webber), il marito, incarna nella sua immobilità e nel suo rifiuto di vedere Pansy in quella che non è avvertita nel suo reale significato di richiesta d’aiuto, espressa senza gli strumenti per formularla con una lucida emozione, ma sotto la devastante manifestazione di una minaccia e di un’aggressione. A un certo punto succede qualcosa che fa emergere l’aspetto inedito e toccante di questa donna under the influence (citando il titolo originale di Una moglie, anche se in quel caso John Cassavetes e Gena Rowlands rispondevano alla repressione del sistema familiare con l’eccedente strabordare della vitalità e non con il suo rifiuto auto ed etero punitivo) e le parole cessano di esplodere dalla sua bocca. Le lacrime, che hanno un valore dichiaratamente catartico- basti pensare ancora una volta a Segreti e bugie e al suo collettivo, liberatorio pianto conclusivo- squarciano il velo di ostilità di Pansy e stabiliscono un momento di tenerezza, seppur non espressa sul piano fisico, con il laconico figlio Moses. Il quale porta sulle sue spalle di ragazzone dallo sguardo basso, che trova solo nell’atto di camminare l’ancoramento al proprio girare nei vuoti spaziali e esistenziali, le conseguenze di quel conflitto genitoriale rimasto inespresso fino all’implosione e all’estromissione reciproca. Pansy getta fuori dalla camera da letto i vestiti e gli oggetti di Curtley, che a sua volta butta senza attenzione in giardino i fiori che Moses aveva regalato a Pansy per la festa della mamma e che la donna, colta da uno scoramento e da un sussulto, aveva messo in un vaso con dell’acqua, rivelando la sopravvissuta capacità di prendersi cura di qualcosa, di saper rispondere ad un gesto di gentilezza. E nel momento in cui le voci sono spezzate – il passaggio obbligato è sulla tomba della madre di Chantelle e Pansy in un confronto tangibile e diretto con il fantasma della morte e della separazione che incombe su ogni stato depressivo -, Leigh affida alle geometrie dei corpi e degli spazi la potenza espressiva per impressionare l’istantanea di una crisi di nervi, il preludio ad un crollo che potrebbe presagire a una ricostruzione, un movimento pronto a scattare contro o ad andare verso. Le soglie, rappresentate dalla porta finestra che separa lo spazio interno della casa da quello esterno del giardino e dal passaggio dal piano inferiore al piano superiore, diventano il limite e al tempo stesso la possibilità che si pone o si vieta davanti agli sguardi sperduti e sovrapposti, in un crescendo interrotto un attimo prima di scadere nell’edificante retorica oppure nell’insindacabile pessimismo, di Pansy e Curtley. Quello che resta allora è il sentore di quello che potrebbe succedere, con uno spiraglio di belle speranze aperto esplicitamente solo su Moses. E in sottofondo lancinante i respiri affannosi di Marianne Jean Baptiste, nei confronti della quale non basterà mai nessun riconoscimento per ringraziarla della generosità e della (scomoda) verità con le quali si è data a questo personaggio.
In sala dal 29 maggio 2025.
Scomode verità (Hard Truths )- Regia e sceneggiatura: Mike Leigh; fotografia: Dick Pope; montaggio: Tania Reddin; musiche: Gary Yersho; interpreti: Marianne Jean- Baptiste, Michelle Austin, David Webber, Tuwaine Barrett, Ani Nelson, Sophia Browne, Jonathan Livingstone; produzione: Film4, Thin Man Films, The Mediapro Studio, Creativity Media; origine: Regno Unito, 2024; durata: 97’; distribuzione: Lucky Red.