The Beatles: Get back

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Essere (tra) i Beatles.

Cinquantasei ore di filmati tenuti secretati per anni e restaurati ad arte, ben centocinquanta ore di audio mai ascoltati prima e quattro anni per editare e montare tutto: è il colossale quantitativo di materiale riportato “alla luce” dalla Park Road Post Production di Wellington e il tempo necessario a Peter Jackson per realizzare The Beatles: Get back, l’opera-monumento che conduce i Beatles nel presente e noi spettatori nel gennaio 1969, in una frattura spazio-temporale-cinematografica che è soprattutto l’opportunità di assistere e partecipare a un evento audiovisivo incomparabile e dal quale sarà difficile distaccarsi una volta raggiunto l’ultimo frame. Per tutti, nessuno escluso.

Progetto diviso in tre parti per un totale di quasi otto ore, The Beatles: Get back non è solo un documentario sulla realizzazione di Let it be, dodicesimo e ultimo album del quartetto di Liverpool. No, sarebbe fin troppo riduttivo e offensivo relegare sotto tale etichetta il kolossal/amarcord di Peter Jackson, in grado di comporre a sua volta una sinfonia sulla dolcezza della quotidianità – seppure stressante, perché piegata dalle esigenze della troupe capitanata dal regista Michael Lindsay-Hogg di raccogliere materiale per realizzare un film e uno show -, sull’importanza di una grande storia di amicizia e, nell’accezione più tecnica ma non per questo meno empatica, ragionando sulla complessità del processo di creazione artistico, stavolta sia beatlesiano che jacksoniano, finanche della rigenerativa potenza del cinema come strumento in grado di valicare ogni limite fisico, spaziale, temporale e comunicativo.

Da qui, la prima onda anomala emotiva che colpisce in pieno e travolge ogni inibizione coincide con la reale e sensoriale sensazione di trovarsi lì nel mezzo, negli studi di Twikenham o in quelli della Apple Records, in religioso silenzio, quasi spinti senza appello a voler e dover condividere la curiosità, i silenzi, gli sguardi, le frizioni e la leggerezza di Paul, John, George e Ringo, ognuno con i suoi tic, le proprie personalità, gli umori ballerini; McCartney infaticabile, leader nato, genio ardente – da pelle d’oca il momento in cui inizia a strimpellare per la prima volta un motivetto che sarebbe poi diventato il brano Get back -, Lennon inafferrabile come il vento, acuto e sornione, giullare e stella polare, e poi Harrison sempre guardingo e pronto a eruttare, tra idee geniali e colpi di coda, fino a Starr, silenzioso e con quella sua eterna espressione da bambinone che la sa lunga e a cui nulla sfugge, è il collante perfetto di un gruppo di supernove, professionale e posato, quanto rassicurante per la sola presenza. E Peter Jackson ce li presenta i Beatles, ce li fa conoscere, come fossero i nostri nuovi amici; ne descrive e studia le personalità grazie a un montaggio cesellato, fluido, ipnotico, perché The Beatles: Get back non diventi documento-feticcio per i soli fan della band di Liverpool, ma prodotto fruibile senza dovere di concessione alcuna – perché, sia chiaro, è un’impresa titanica mettere insieme ore e ore di prove in spazi chiusi senza ridurre praticamente sottozero l’attenzione di chi guarda e ascolta. Ma il regista della trilogia dell’anello non solo riesce in maniera impeccabile a sviluppare una calda sensazione di appagamento e attaccamento, come a non volere che il tempo scorra come già ha fatto nella realtà, ma travalica il senso stretto del voler rievocare quanto già accaduto, riuscendo a raccontare tante storie: quella della lavorazione dell’album Let it be, i disagi di un gruppo appagato dalla routine di band-sforna album, le loro speranze di non abbandonarsi mai, la voglia di farlo, la dolcezza, il genio, una Londra grigia da rischiarare, l’eterna grandezza della musica e l’importanza di catturare la storia e poterla raccontare all’infinito.

Questo ultimo aspetto è fondamentale per leggere appieno – no, forse è quasi impossibile – l’opera di Jackson. Perché la volontà di Hogg di riprendere ore e ore di sessioni, le fatiche fisiche e mentali dei Fab Four per comporre nuova musica e il lungo e certosino lavoro di montaggio e post-produzione completato da Jackson per realizzare il film, si muovono su direttrici inevitabilmente destinate a toccarsi, intrecciarsi e sovrapporsi. Ed è in quel momento – che non è un momento preciso, ma un momento che dura in eterno – che The Beatles: Get back diventa il manifesto della complessità del processo artistico, del lavoro che prende in prestito un’intuizione per poi tramutarla in qualcosa di grande e spesso e profondo, dell’ardore dell’artista che ricerca nel lavoro il suo senso di individuo-compiuto, mai quieto, sempre irrequieto. In questo senso The Beatles: Get Back è uno studio sull’importanza dal sacrificio dell’artista che deve ascoltare e scendere a patti con se stesso e, ancor di più, con gli altri: tutto è collegato, intrecciato tra la storia e il tempo del racconto. L’arte che riflette sull’arte; il cinema che riflette sulla musica; l’umanesimo dell’artista.

P.S.: poiché il cinema è un’arte che piega e modella la narrazione-per-immagini rendendo visibili sensazioni e umori in eventi a loro modo finti ma “veramente accaduti”, quando The Beatles: Get back si chiude con il leggendario live sul tetto degli studi Apple, lasciando intendere allo spettatore che null’altro di interessante potrebbe accadere, ecco che lo split screen condiviso con l’arrivo di alcuni zelanti agenti di polizia trasforma un epilogo semplicemente documentaristico in una sorta di cliffhanger dal retrogusto spiccatamente comico, che fa emergere quel senso di rivalsa e appagamento degno di ogni indimenticabile lietofine. Anche se un lietofine, a posteriori, non ci sarà. Ma stavolta, va bene così.


The Beatles: Get back  –  regia: Peter Jackson; montaggio: Jabez Olssen; musica: The Beatles; interpreti:  John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Ringo Starr, Billy Preston, George Martin (II), Glyn Johns, Michael Lindsay-Hogg, Mal Evans, Yoko Ono, Heather McCartney, Linda Eastman, Maureen Starkey, Peter Sellers, Geoff Emerick; produzione: Apple Corps, Polygram Entertainment, Walt Disney Pictures, WingNut Films; origine: Regno Unito, Nuova Zelanda, USA; durata: 468′; distribuzione: Disney+.

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