Gli indesiderabili di Ladj Ly

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Ci sono almeno due sequenze che rimangono impresse anche a lungo nella memoria, oltre la forza dell’impatto visivo, ne Gli indesiderabili opera seconda di Ladj Ly dopo il potente e ipercinetico I miserabili del 2019 ( opera esplosiva e scalpitante sulle costanti e mai esaurite tensioni interculturali, prima che il mondo implodesse nell’isolamento della Pandemia, con tutte le contraddizioni e i nervi ancora scoperti): la prima è proprio in apertura, una bara contenente una salma che alcuni uomini trasportano lungo le scale di un palazzo diroccato di periferia. Scopriremmo trattarsi della nonna di Haby, giovane donna francese di seconda generazione, che trasformerà in militanza politica il suo impegno primariamente sociale e volontaristico nei confronti della comunità interraziale in cui è cresciuta, l’ immaginario, seppur (iper)realistico, quartiere di Montevillers, laddove l’opera prima di Ly era ambientata a Montfereil, la vera cittadina nella quale è nato e cresciuto; e già quell’accompagnare con una cura e una dignità espresse nella loro consistente manifestazione fisica offre il passo di un gruppo di persone capaci di stringersi intorno al corpo di un’identità comune, che lascia un’impronta nei luoghi e nelle relazioni.

Non a caso per contrappasso l’altra sequenza memorabile è quella in cui l’istituzione comunale, nella persona di un sindaco vile e opportunista sopravvenuto all’improvvisa dipartita del precedente governatore, ordina alla polizia di sgomberare con brutalità e impietoso tempismo (la vigilia di Natale) un palazzo sovraffollato di esseri umani e oggetti, con il pretesto di una situazione di emergenza causata da un problema strutturale degli edifici e l‘intenzione neanche troppo celata di demolire quel comprensorio, per costruirne un altro ancora più angusto e inadeguato nell’ospitare nuclei familiari cosi prolifici e intergenerazionali. Ma questa evacuazione ha i tempi, i modi e gli effetti di una deportazione verso il nulla esterno e desolante di macerie materiche, visto che il processo di deflagrazione e ghettizzazione del quartiere è già cominciato, con l’intelligente intuizione da parte del regista di far morire il precedente sindaco di infarto proprio di fronte a un’esplosione e a un fumoso e detritico crollo, a suggello di come questo tipo di (in)cultura urbanistica e predatoria sia espressione di un patriarcato occidentale agonizzante e morente, in grado solo di far affondare chiunque nella sua ineluttabile auto distruzione. Non c’è dunque il tempo necessario per trasportare con cura e dignità tutte le cose appartenenti a se stessi in quanto espressione della propria storia, della propria cultura e della propria sopravvivenza, e l’immagine di mobili, elettrodomestici  e vestiti calati giù dalle finestre, con quel palazzo che si fa porta, limite, confine tra un dentro e un fuori non protetti da una continuità spaziale e temporale, è dato in pasto alla catastrofe dicotomica e polarizzata tra privilegiati ed emarginati, benestanti e miserabili, occupanti e indesiderabili. Si tratta comunque di un climax al quale si arriva passando attraverso la descrizione, piuttosto schematica a dire il vero, tra la resistenza dei cittadini neri relegati nella posizione di serie b del pregiudizio e del silenzio e l’arroganza ottusa dell’amministrazione bianca, borghese e neoliberista dietro la patina progressista e dialogante. Una doppia morale riportata con efficacia dal confronto tra il sindaco neanche troppo mal celatamente reazionario e razzista e la moglie più ipocritamente perbenista nei confronti della famiglia araba che ospita per il cenone natalizio (prima di un contro climax costruito con una notevole tensione).

Come già ne I miserabili, Ladj Ly non si limita a rappresentare una dinamica, ma prende esplicitamente una posizione e fa sentire addosso il senso di ingiustizia, di manipolazione e di spregiudicatezza di chi allunga le mani sulla città, tanto per citare il capolavoro di Francesco Rosi dove lo sguardo era talmente interno al meccanismo dello sfruttamento e del potere abusante da poter essere riproducibile nello scenario di qualsiasi sud del mondo; Haby, che si candida sindaco forte di un relazionale  consenso dal basso tanto da apparire rappresentata iconicamente  su un murale, è l’eroina di una quotidianità che non cerca sensazionalismo per ambizione o per vendetta. La rabbia è il motore propulsivo, e lo scopo non consiste nel soddisfacimento immediato ed impulsivo di essa, come sembra essere invece per Blaz, amico in contrasto con la visione più oculata e saggia di Haby. La questione è che gli estremismi portano entrambi in quel nulla di cui si diceva, e questo punto di vista è introdotto in una maniera cosi spiccatamente sottolineata da appiattire la carica espressiva e il dinamismo delle immagini e far prendere a cuore quasi per partito preso, con una impaziente e urlata esigenza di denuncia, la causa degli abitanti delle banlieue: i politici e i loro scagnozzi sono abietti, vigliacchi e ottusi, la ribellione dei residenti è giustificata però fino a un certo punto, la democrazia rappresentativa è  comunque il più efficace degli strumenti per far ascoltare la propria voce…una serie di tesi insomma dalle quali riescono a sfuggire e a liberarsi e librarsi sopra il livello dell’arringa proletaria le due sequenze della bara e dello sgombero , proprio perché aperte all’autenticità e all’immanenza dei gesti e alla forza evocativa della memoria e della presenza, della testimonianza di un esserci e di un esserci stati.

La necessità di essere chiari e senza ambiguità rispetto a una situazione veramente intollerabile e incontenibile come quella abitativa nelle estreme periferie è comprensibile, ma non lascia spazio a molto altro se non a una viscerale indignazione (il che sì, per il cinema di oggi, in particolare in analogia con il cinema italiano che continua a non voler vedere la polveriera sopra la quale ci troviamo, è già qualcosa di enorme). Eppure basterebbe anche molto meno per far sentire il peso di una realtà che fa crollare e sgretolare le artefatte certezze di una post capitalistica e sbiancata confort zone: “L’ho fatto per te..” “Vaffanculo!”, il sussurro vergognoso del padre che sfrutta, lascia morire e seppellisce in nero i lavoratori immigrati e il rifiuto rabbioso di un figlio che rimanda al mittente quel patrimonio insanguinato, uno scambio di battute di disperata e secca lucidità nel meraviglioso La Promesse dei Fratelli Dardenne. Un momento scevro di qualsivoglia retorica o facile effetto, una resa dei conti che è arresa ad uno stato delle cose contro il quale solo il pronunciare ad alta voce la verità diventa opposizione all’omertoso sistema. Una verità che può essere sussurrata di spalle come farà sempre ne La promesse il ragazzo  raccontando della morte del marito per un incidente sul lavoro alla moglie che lo continuava ostinatamente a cercare. Ma era il 1996 , quando ogni sopruso veniva consumato in un sottobosco di brutalità che solo i due registi belgi avevano cominciato a far emergere sotto la luce vivida e livida di un nuovo, non conciliante realismo. Lo sguardo di Ly, per interposti gli occhi sgomenti di Haby, alza ora il tiro e la voce; ci si chiede solo se avrà la stessa durata e la stessa eco.

In sala dal 11 luglio 2024


Gli indesiderabili (Les indesiderables) – Regia: Ladj Ly; sceneggiatura: Ladj Ly, Giordano Gederlini; fotografia: Julien Poupard; montaggio: Flora Volpelière ; interpreti: Anta Diaw, Alexis Manenti, Jeanne Balibar, Steve Tientcheu, Aristotele Luyindula, Aurelia Petit; produzione: Le Pacte, Rectangle Productions, Srab Films; origine: Francia, 2023; durata: 101 minuti; distribuzione: Lucky Red.

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