America Latina di Damiano e Fabio D’Innocenzo

  • Voto

A due anni circa dall’acclamatissimo Favolacce, i fanciulli-prodigio Damiano e Fabio D’Innocenzo riemergono dall’oscurità della sala con una cronaca nera dai contorni surreali. Nel bene e nel male, America Latina ha già lasciato il segno: a partire dalla proiezione alla scorsa Biennale di Venezia dove era passato in Concorso, bastava aprire Google e picchiettare la tastiera per essere investiti da un tripudio di commenti, invettive, pareri ululati da svariate testate. Anche noi teniamo unirci al sacro coro della critica cinematografica, ma non possiamo sperare di ricoprire il ruolo di solisti.

Che significa? Semplicemente, se tutti citano David Lynch, Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni e Matteo Garrone, un motivo (che piaccia o no ai nostri genietti del grande schermo) ci sarà. Nel giro dei primi dieci minuti la mente corre infatti sulla fosca Lost Higway lynchiana, eppure qualcosa non quadra: dov’è il sogno? Dov’è il delitto? Dov’è quella caligine disturbante che fa di un semplice incubo un vero e proprio noir? Per non parlare dell’esotico sarcasmo contenuto nel titolo, che scambia sostantivo e aggettivo: è Latina la protagonista del palcoscenico, la diva sotto ai riflettori, la ragazza di provincia così brutalmente profanata e devastata dalla cinepresa.

La storia è quella di Massimo Sisti (Elio Germano), un dentista dall’indole docile e dalla vita perfetta – una vita che, tanto per intenderci, include i seguenti requisiti: una bella casa, una bella moglie, due belle figlie, una piscina, una coppia di cani, un amico fidato, un buon lavoro e un buon conto in banca. Un giorno, l’uomo scende in cantina per cercare delle lampadine. Ma non sa, ad esempio, che la cantina non è affatto una cantina, bensì lo stretto varco verso un antinferno quotidiano finora occultato da un’impeccabile routine. La stanza somiglia ad un container industriale, le pareti scivolose e il pavimento ricoperto di rifiuti poco si adattano al nitore dell’ordinata villa in superficie. Massimo è confuso. Ma non è finita qui: al centro del locale giace una bambina inerme e dal volto irriconoscibile. Il suo corpo, legato e imbavagliato, appartiene a qualcuno che deve aver subito ogni sorta di abuso. Massimo è spaventato e chiama i soccorsi. La sconosciuta urla e si dimena come un animale in gabbia. Massimo riattacca. Perché?

Non sono neanche passati trenta minuti e già sappiamo che il gentile e innocuo Signor Sisti, con ogni probabilità, non è poi così gentile e così innocuo. Come prevedibile, veniamo lentamente ma inesorabilmente risucchiati in una spirale di follia da cui non sembra esserci via d’uscita. Il rispettabile dottore comincia a comportarsi in maniera bizzarra, ma ciò che più ci turba (o ci infastidisce, dipende dalla natura del nostro animo) è la totale assenza di comunicazione fra l’universo parallelo in cui l’eroe scalpita e il mondo reale. Come già nelle spaventevoli Favolacce di Viola, Dennis e Alessia, anche in questo caso l’obiettivo rimane ancorato ad un limbo periferico, allucinato, bianco come le fantasie di un neonato. Latina si fa America: le carreggiate si espandono all’infinito, i bar sulla statale si svuotano, gli interni brillano in un asettico quanto innaturale fulgore. E al piano di sotto, la bestia continua a grattare i muri.

Lynch, dunque, e ancora Lynch – ma nell’apatico torpore della moglie e delle figlie, intravediamo l’enigma delle Vergini suicide generatesi quasi un ventennio fa dalla morbosa e soleggiata Detroit di Sofia Coppola. Questo microcosmo al femminile, dapprima così rassicurante ed etereo, finisce per emanare vapori tossici: i fantasmi di un passato mai passato si stringono attorno all’insospettabile carceriere e alla sua piccola vittima, soffocandone le grida a colpi di pianoforte, di crostate alla fragola, di vestiti fruscianti. Presenze minacciose si librano sul teatro di cartapesta così faticosamente allestito da Massimo, gli spettri appestano l’aria e la tranquilla cittadina si trasforma in una terra desolata di cui nessun atlante conosce ancora l’esatta ubicazione. Sulla carta geografica non c’è traccia del continente in cui i fratelli D’Innocenzo ci catapultano e nemmeno il finale pare essere in grado di fornirci coordinate adeguate.

Lungi dall’inscriversi nel semplice thriller a sfondo psicologico (troppo banale per gli ambiziosi registi!), la pellicola – come sempre con la bella fotografia di Paolo Carnera (cfr. https://close-up.info/1537-2/) – si perde fra i misteri di una novella dai toni fantastici. Perfino l’epilogo ce lo dimostra, protraendo oltre il limite un’ambiguità irrisolvibile per sua stessa natura. Chi crede di leggere nell’ultima scena una sorta di rivelazione finale dai toni polizieschi, confida oltre misura nelle proprie capacità deduttive. Vi siete chiesti come mai Massimo sia l’unico personaggio a possedere un nome, una professione, un profilo ben delineato – in poche parole, un’identità? La sospensione vigente fra il meraviglioso allo stato puro e la logica umana che tutto spiega, in fondo, non viene mai risolta: ed è per questo che il racconto (udite, udite!) funziona.

In sala dal 13 gennaio 2022 


Cast & Credits

America Latina – Regia: Fabio D’Innocenzo, Damiano D’Innocenzo; sceneggiatura: Damiano e Fabio D’Innocenzo; fotografia:   Paolo Carnera; montaggio: Walter Fasano; interpreti: Elio Germano (Massimo Sisti), Astrid Casali, Sara Ciocca, Maurizio Lastrico, Carlotta Gamba, Federica Pala, Filippo Dini, Massimo Wertmüller; produzione: The Apartment (Lorenzo Mieli), Vision Distribution, Le Pacte; origine: Italia 2021; durata: 90’; distribuzione: Vision.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *