L’incedere risoluto e fiero di una donna per i corridoi dell’edificio scolastico frequentato dal figlio seienne è come l’annuncio della battaglia che si sta per consumare all’interno di quelle stesse mura, i cui locali in realtà sarebbero predisposti ad una funzione educativa e ludica: si apre su questo campo di battaglia Armand, l’esordio, battezzato dalla Caméra d’or per la migliore opera prima all’ultimo festival di Cannes, di Halfdan Ullman Tøndel , sul quale aleggia l’ombra lunga dei celeberrimi nonni, Liv e Ingmar Bergman. Il pretesto, quanto mai tale in un film che osa esplorare la dimensione simbolica e psicologica delle relazioni, è un meccanismo narrativo ineccepibile e già sperimentato: come già nella pièce Il dio della carneficina di Yasmine Reza, dal quale Roman Polanski trasse un magistrale adattamento cinematografico, Carnage (2011), al centro del contendere ci sono due famiglie chiamate a sanare in teoria e a far deflagrare in sostanza, il conflitto tra i rispettivi figli. Ma al contrario del tono parossistico e grottesco della storia ambientata negli Stati Uniti qui c’è tutta la morbosità e l’oscurità penitenziale e penitenziaria (più che in una scuola elementare sembra di trovarsi in un riformatorio o in un carcere) appartenente alla cultura scandiva, nello specifico a quella medio alta borghesia cosi abile nell’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto, come disse a suo tempo Ingmar Bergman titolando una delle sue Scene da un matrimonio. L’età dei ragazzini in questioni si abbassa e non si tratta di una comune per quanto sanguinolenta rissa; l’accusa è di una presunta aggressione a sfondo sessuale da parte di Armand, la cui madre è la tesissima figura che si staglia nell’incipit, ai danni di un coetaneo che scopriremo poi essere anche suo cugino.
Ma c’è di più nella labirintica ricostruzione di intersezioni e collusioni familiari, con il progressivo svelamento di ferite assai più profonde e permanenti dei lividi lasciati sulla pelle da una rissa infantile. Il regista e sceneggiatore, una volta esposto il caso i cui potenziali “giudici”, due maturi dirigenti scolastici e una più inesperta maestra, sono ugualmente coinvolti, tirati dentro, turbati da conoscenze e convincimenti, prese di posizioni e simpatie, nonostante la ben presto vanificata dichiarazione iniziale di oggettività ed equilibrio, sposta il piano dell’azione e dell’espressione sull’elemento performativo delle emozioni , facendo presto cadere il valore convenzionale e di superficie della parola. E l’entrata in scena di Elizabeth, la protagonista (interpretata da una Renate Reinsveen che abbandona il tono tra l’incantato e il reticente da dolce e amara commedia post romantica de La persona peggiore del mondo per vestire la lancinante mantella del dramma inesplicabile e crudele) ne è proprio la chiave d’accesso; è lei che, dopo la calibrata prima parte, quando si arriva al punto in cui i rappresentati istituzionali della scuola cercano di sintetizzare una soluzione dentro la verbalizzazione di un monito oppure un consiglio, interrompe il proseguimento della riunione attraverso delle moleste e provocatorie risate. Una lunga sequenza che spezza il rito consolatorio delle spiegazioni e introduce quello dissacrante e disturbante dei sentimenti repressi, dei non detti, dell’osceno evocato e sublimato. Elizabeth peraltro è un’attrice e si presume abbia un’esperienza e una pratica nell’elaborare ed interpretare le emozioni, mentre la coppia di genitori/cognati avversari mantiene una staticità e una rigidità che verranno poi messe alla prova dalla personalità istrionica e accentratrice della donna, a suo volta costretta a difendersi da accuse ben più vaste e problematiche sulle sue capacità di maternage e accudimento, nonché su un tenore di vita incontrollato, del quale la precoce condotta sconveniente di Armand dovrebbe essere un’appendice o una conseguenza. Lontano da qualsiasi moralismo o giudizio, Ullman Tøndel sceglie l’opacità e l’interscambiabilità tra vittime e carnefici, soprattutto quando questi ruoli girano intorno alle armi suadenti e scivolose portate da un nevrotico, ristagnante bisogno di sedurre e di sentirsi desiderati. La ferita di Elizabeth a un certo punto sembra risiedere in quel suo essere una creatura desiderante e libera, che vuole danzare la propria condizione flirtando finanche con il bidello dell’istituto o facendosi sinuosamente dondolare e accarezzare e poi famelicamente quasi divorare dal “corpo” di tutti gli altri genitori: sono questi degli inserti, dei momenti coreografici in contrappunto e in digressione quasi free jazz alla routine dialogica del botta e risposta serrato e serrante.
Come se fossero balletti circolari che mischiano le carte di una verità non conoscibile, perché la rivelazione, spesso più di una, resta un accenno, uno spunto, lo scoperchiare e ricoperchiare le figurine di una matrioska. Di carne al fuoco opaco del sole scandinavo- Il fuori campo non ha alcuna luce o vibrazione- c’è ne in proliferante eccedenza e questo ricade a discapito della messa in scena architettata dal regista: c’è purtroppo, in particolare nella seconda parte, uno sbilanciamento verso scene intrise di un simbolismo che si presta ad essere decrepitato- con Elizabeth esplosivo capro espiatorio dei sensi di colpa, delle omissioni, dei sotterfugi e dei sussurri di una comunità auto ed etero punitiva-ma che, nella sua esibizione programmatica e artificiosa, invece di tematizzare e di amplificare la spinosa questione di quanto il potere e la manipolazione incentivino la violenza nelle sue stratificate manifestazioni, risulta urtante e reiterato. Un gioco al massacro dal quale si resta estenuati, o più prosaicamente stufi, nell’alternarsi continuo dei massacrati e dei massacranti, con una conclusione senza una vera ragione d’essere. Il riferimento bergmaniano, che pure è impresso in una sorta di DNA delle immagini, è altresì pretenzioso perché si rifà ai titoli più ostici e misteriosi del maestro svedese, primo tra tutti Il rito (1968) nel quale una triade di interpreti teatrali si difendeva dall’accusa di oscenità in luogo pubblico di fronte a un giudice dilaniato fino alle morte tra le ragioni della legge e le pulsioni della carne, ma anche dal potenziale devastante che intercorre tra il vedibile e il non vedibile. I veri fantasmi di Armand sono proprio i bambini molestati e abusati, che appaiono in foto e in disegni rappresentati in una maniera alterata e falsata, oppure menzionati nei racconti scollegati e mancanti dei loro genitori, soggetti di un orrore che se fosse visto e svelato sarebbe insostenibile e deflagrante (come il naso della dirigente scolastica che non può smettere di sanguinare). Solo che invece dell’essenzialità prosciugata, finanche nella durata, di un duro e puro Kammerspiel, Armand cerca il lungo respiro metaforico tra la piaghe e le smorfie di un Volto e trova la meccanicità didascalica e ripetitiva dentro un Mondo di marionette.
In sala dal 1 gennaio 2025
Armand – Regia e sceneggiatura: Halfdan Ullman Tøndel; fotografia: Pal Ulvik Rokseth; montaggio: Robert Krantz; musica: Ella van der Wounde; interpreti: Renate Reinsve, Ellen Dorrit Petersen, Endre Hellestveit, Thea Lambrechts, Oystein Roger, Vera Veljovic; produzione: Eye Eye Pictures, Keplerfilm, One Two Films, Prolaps Produktion, Film i Vast; origine: Svezia, 2024; durata: 117’; distribuzione: Movies Inspired.