Come le tartarughe di Monica Dugo

  • Voto
2.5

Come le tartarughe, esordio in regia dell’attrice Monica Dugo concepito e realizzato all’interno della Biennale College Cinema del 2022 (un’esperienza laboratoriale legata alla Mostra di Venezia all’interno del quale vengono realizzati e sviluppati dei soggetti che poi diventeranno delle opere prime) contiene in sé tutte le potenzialità e i limiti della premessa da cui parte per provare ad acquisire e a mantenere il respiro di un lungometraggio: l’incipit,  una famiglia della buona borghesia romana descritta in una realistica quotidianità, è quasi subito minato da un fatto, anche questo abbastanza ricorrente nelle vite della gente comune.

Accade che il padre di famiglia, un medico rinomato, lascia moglie e figli perché si innamora di un’altra donna e quello che era un equilibrio forse già fragile nella sua ovvietà, si dissolve del tutto, in particolare nei personaggi femminili: Lisa, la moglie/madre, interpretata con un tono quasi da subito un po’ mesto e laconico dalla stessa regista, e Sveva, la figlia maggiore adolescente che esprimerà una rabbia e un’insofferenza nei confronti di quei genitori che si mostreranno più infantili e bisognosi di accudimento di lei e del fratellino.

La donna reagisce in maniera così estrema nei confronti dell’abbandono del marito , in particolare a causa della forma che usa per congedarla, un sommario biglietto, da mettere in atto una vera e propria ripicca e chiudersi dentro l’armadio della camera da letto, in cui riproduce uno spazio protetto e selezionato dove esprimere il proprio dolore.

Intorno a questa soluzione di matrice quasi surrealista, con una sospensione del tempo della realtà e della dimensione fisica del corpo (non la vediamo mai uscire neanche per andare al bagno) ruota tutta la durata del film, 80 minuti circa, con la sensazione però di un mediometraggio tirato fino allo stremo delle sue possibilità espressive.

Ci sono dei tentativi di creare un rapporto tra lo spazio astratto interno e lo spazio reale esterno che continua ad essere fatto di attrazioni e di pulsioni( sarà il dolce e comprensivo fidanzatino della figlia ad aprire una breccia nel guscio della donna), ma tutto rimane accennato, in bozza, non eccessivamente esplorato. C’è anche un’ invettiva molto caustica contro la psicoanalisi e gli psicoanalisti, in particolare quelli frequentati dall’upper class romana, che non si capisce quanto sia ironica o quanto la rivendicazione effettiva  di una presa di posizione della protagonista, del suo chiedere per sé l’elaborazione della sofferenza e dello smarrimento attraverso le armi di un’immaginazione rifondata e autogestita, e non compresa solo razionalmente.

Una prospettiva, anche questa, che per quanto discutibile, poteva essere sviluppata con più convinzione e compiutezza, anche perché poi la psicologa descritta nel film appare e scompare in una maniera penosa e fa perdere di vista il senso della sua presenza, se non quello di funzionale espediente drammaturgico che a un certo punto non serve più e può uscire di scena (con tanto di porta sbattuta in faccia: ma forse questo rappresenta proprio il giudizio trenchant dell’autrice, appunto).

Una mancanza di approfondimento , rispetto al tempo di un lungometraggio , di cui purtroppo risentono anche i personaggi intorno a Lisa: rimane ben impressa la figlia, a cui da il proprio vibrante piglio la giovane Romana Maggiona Vergano, mentre è troppo evanescente la figura del marito, di cui non si sentono e non si capiscono le ragioni del tradimento e della fuga, il ché aiuta a rendere l’iniziale spaesamento di Lisa ma poi ne limita il significato della scelta radicale e l’acquisizione di un’altra consapevolezza( c’è anche il personaggio della madre di Lisa, che sembra veramente essere passato un po’ lì per caso a fare colore…); si rasenta anzi una sorta di narcisismo a causa del quale in alcuni momenti si empatizza più con il pragmatismo della ragazzina che vorrebbe fare la ragazzina e che chiede agli adulti di fare gli adulti ( una questione già esplorata ne L’immensità di Emanuele Crialese, dove in quel caso la protagonista pre adolescente doveva tra l’altro fare i conti con la rivelazione della propria identità di genere).

Forse , spostando lo sguardo da fuori l’armadio, rimane proprio l’interrogativo su cosa significhi prendersi cura di se stessi e degli altri , su quale sia il limite dell’autodeterminazione e quello dell’egoismo, rappresentato simbolicamente dalla soglia di un non luogo che diventa un’estensione della memoria affettiva per elaborare il passato e reinventarsi il futuro, con il rischio di restare imprigionati in quella rassicurante, immaginaria confort zone di potrei e di non voglio.

Magari la soluzione sta in un immaginario ancora altro, così spudoratamente individualista e rivendicativo da infischiarsene di scrupoli e sensi di colpa: l’immagine di un paio di almodovariani tacchi a spillo con cui uscire per calpestare le proprie umiliazioni.

In sala dal 24 agosto


Come le tartarughe; Regia: Monica Dugo; sceneggiatura: Monica Dugo con la collaborazione di Massimiliano Nardulli; fotografia: Gianni Mammolotti; montaggio: Paola Traverso; musica: Pier Cortese; interpreti: Monica Dugo, Romana Maggiona Vergano, Edoardo Boschetti, Francesco Ghegni,Angelo Libri, Annalisa Insarda’; produzione: Cinzia Ruston per Do-Go & C.; origine: Italia, 2023; durata: 80 minuti; distribuzione: .

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