Estranei di Andrew Haigh

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Come sempre, nel loro essere fuorvianti, i titoli italiani omettono qualcosa che rivela un aspetto basico, nucleare, determinante contenuto nella locuzione originale: Estranei, l’ultimo squarcio spazio temporale di Andrew Haigh nella dimensione allucinata, intima e struggente del desiderio, della tenerezza e del rimorso (in un’ideale trilogia di cui fanno parte anche Weekend e 45 anni) in Inglese è All of us strangers : tutti noi siamo estranei, e non si tratta precisamente di un dettaglio, ma di aprire subito una ferita che ci riguarda tutti, in prima persona, nella possibilità di immaginarci al plurale e in particolare in coppia. E in un cinema fatto di attraversamenti e di passaggi , l’inizio non può essere che un cielo stellato che si sta facendo mattina o notte con il controcampo di un monadico e impermeabile muro di finestre di un palazzo che congiunge la città e la periferia, i bagliori visivi e acustici del dinamismo urbano sullo sfondo e il silenzio spettrale delle rovine riflettenti di un luogo (quasi) post umano.

In mezzo alle rovine dal design high tech del modernissimo edificio si muove chiuso in una contemplativa nostalgia, Adam, “primo” uomo in un mondo nel quale sembrano aver trionfato l’isolamento e la diffidenza nei confronti di un presente che è solo distanza, minaccia, evitamento (l’allarme che suona e annuncia in continuazione un presunto pericolo). Ma si tratta appunto di un’apparenza, di una superficie, di una grana cosi fragile che basta un colpo per scalfirla e per aprire un varco. Cosi Harry bussa alla porta di Adam per chiedere rifugio, protezione, eros. Si sono già guardati, durante uno di quei falsi allarmi, dal basso verso l’alto (Adam verso Harry rimasto alla finestra a godersi l’ennesimo rituale di una minaccia molto più immaginaria della disperazione in cui sta sprofondando). E, nel  primo paradosso che il film ci presenta, è proprio il rifiuto di Adam a farlo entrare, a concedersi di mordere quel frutto che lo farebbe precipitare dal suo mortifero e alienante Eden, che innesca una serie di eventi liberatori e rivelatori, con un escamotage che soggiace al preambolo di ogni potenziale melodramma e di qualsiasi probabile tragedia: l’accadimento di un fatto straordinario che disintegra le convinzioni e le convenzioni di esistenze segnate da un trauma, una scelta, un svolta.  Non c’è però un collegamento cosi raziocinante e comprensibile su un piano di lettura del racconto, sul perché Haigh segua l’impulso di Adam, successivo all’accesso negato ad Harry, di tornare nel quartiere e nella casa dove da ragazzino viveva con i genitori, morti in un incidente stradale quando aveva dodici anni, e faccia materializzare questa intuizione nei corpi vitali e ancora giovani della madre e del padre, con la  capacità di creare un’atmosfera di appartenenza, riconoscimento e calore che include e al tempo stesso trasforma lo spaesamento e la paura in commozione e gratitudine.

Ora si può dire che sarebbe limitante ridurre la questione alla non risolta omosessualità di Adam, che può confrontarsi finalmente e apertamente con resistenze (della donna, rimasta all’idea di una società profondamente  discriminante, per la preoccupazione nei confronti della felicità del figlio) e sensi di colpa (dell’uomo che ne aveva capito l’inclinazione e ascoltato il pianto notturno e segreto per il bullismo subito a scuola,  e lo aveva volutamente ignorato, ammettendo anche i propri pregiudizi); la biografia dei personaggi è infatti solo la facciata di una ben più estesa volta celeste e cosmica all’interno della quale viene proiettato quel che resta di una memoria che per farsi atto ha bisogno di diventare immaginario, sogno, perfino allucinazione. Nel parallelismo tra ciò che è reale (nell’accezione di mentale come lo intendeva e lo faceva dire Sam Shepard al personaggio del padre nella sua pièce Follia d’amore)  e ciò che è vero, non si pone dunque il margine psicotico e depressivo della insolubile dicotomia, in quanto l’uno si nutre dell’altro, e permette di creare un corpo , una forma e una sostanza che lasciano il segno. Un segno vivido e tattile  come lo sperma che scorre lungo la guancia di Adam nel momento in cui lascia entrare Harry ( “Keep the vampires from your door”, recita un verso dell’intro di The power of love dei “Frankie Goes to Hollywood” citato da Harry, e Lasciami entrare era proprio un film di vampiri che chiedevano di attraversare il confine tra solitudine e relazione) e accetta di fare l’amore con lui; ma anche più fisicamente morbido come l’abbraccio di un padre, quale che sia tra fantasma, spettro  o rivendicazione di una necessità, che ha rimosso il machismo nel nome del figlio, e di una terrena e umanissima voglia di tenerezza.

In quest’ottica l’identità sessuale non è solo un dato biografico ma il nodo cruciale di come si manifesta e si sviluppa la fantasia domestico-familiare di Adam e la conseguente interazione con la decisione di viversi fino in fondo l’incontro con Harry . Non solo la sublimazione di un sogno romantico di bambino e di adulto che può essere amato completamente e simultaneamente per quello che è e che sarà, come nella scena più radicale dove l’uomo è al letto vestito con il proprio pigiama da ragazzino assieme al padre, alla madre e all’amante, interscambiabili nella condivisione di un dolceamaro talamo di carezze e rivelazioni; ma anche lo spazio di una condivisione dove l’emersione/espressione della parola, sempre sostenuta e accompagnata dall’emozione (Adam piange nel momento in cui rivendica il proprio diritto alla felicità con la riottosa e passivamente ostile madre di fronte al suo coming out)  assume il valore e la consistenza di un processo di auto coscienza personale. E forse l’altro confine del cinema di Haigh è situato proprio nella zona confusa e nebulosa dei detti e dei non detti, con lo stigma sociale che pesa come il tarlo che erode la mente o come la eco di Voci distanti …sempre presenti, per citare un titolo di Terence Davies, autore della memoria come processo di rielaborazione sentimentale e poetica, al quale probabilmente Haigh ha rivolto il proprio sguardo. Una serie di atti o di atti mancati che hanno il potere di cambiare il corso degli avvenimenti, soprattutto quelli piccoli, quotidiani, comuni. Dunque in Weekend , la mancata risposta di Russell soffocata dai brusii omofobi in sottofondo (reali e introiettati) all’esplicita richiesta di Glen di avere apertamente una storia con lui , cosi come in 45 anni il silenzio imposto da Charlotte Rampling al marito Tom Courtenay rispetto alla scoperta di una precedente compagna scomparsa durante un’escursione in montagna e probabilmente mai dimenticata, sono i negativi di un immagine che infatti poggia il perno della sua rappresentazione realistica su una fenomenologia dei sentimenti; non c’è la trasfigurazione visionaria e onirica riservata al melodramma di fiammeggianti colori dove ardono e si consumano Adam e Harry.

E in questo andirivieni che sovrappone le tracce di vita amorosa, e qui il riferimento è al compianto Peter Del Monte e alle sue mille porte che collegano il fantastico con il quotidiano, resta il trait d’union tra Adam, Harry e tutti noi: lo sguardo di Russell nel finale di Weekend , che, dopo aver lasciato andare il suo Glen, rivolto ad un cielo (ancora) senza stelle,  esprime un desiderio attraverso una canzone: I wanna go to Marz.

Perché forse è meglio ritrovarsi marziani, che perdersi estranei.

In sala dal 29 febbraio 2024


Estranei (All of us strangers)  Regia e sceneggiatura: Andrew Haigh, dall’omonimo romanzo di Taichi Yamada; fotografia: Jamie D.Ramsay; montaggio: Jonathan Alberts; musica: Emile Levienaise-Farrouch ; interpreti: Adam Scott, Paul Mescal, Claire Foy, Jamie Bell; produzione: Film4 Productions, TSG Entertainment, Blueprint Pictures; origine: Gran Bretagna, 2023; durata: 105 minuti; distribuzione: The Walt Disney Company Italia.

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