Giurato numero 2 di Clint Eastwood

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C’è un dettaglio di pochi secondi in una delle inquadrature finali di Giurato numero 2, l’ultimo film diretto da Clint Eastwood, che sintetizza in maniera emblematica la nucleare questione etica intorno a cui fino a quel momento è stata costruita tutta l’architettura del racconto e della messa in scena:  Justin -nomen quasi omen- Kemp (Nicholas Hoult) e Faith Killebrew (Toni Collette), giurato e procuratore distrettuale di un processo appena terminato e che ha condannato all’ergastolo James  Sythe per l’omicidio volontario della sua compagna, stanno discutendo su cosa sia la giustizia e cosa sia la verità,  con Justin che spiega come ci siano spesso uno slittamento di senso e una non corrispondenza tra i due concetti. Quando Faith fa per andarsene, un’inquadratura dall’alto e di spalle della statua di Themis, la dea greca della giustizia che si trova davanti ai tribunali americani, mostra per un’istante la bilancia con i due piatti, simbolo dell’equilibrio tra bene e male, ondeggiare colpita da una folata di vento. La presunta equità è dunque continuamente in bilico nel cadere da una parte o dall’altra, e Justin, che scorgiamo rimanere seduto sulla panchina da una veduta che ne inchioda e al tempo stesso riconosce le contraddizioni e i paradossi , non è stato solo l’ anonimo componente estratto a sorte di una giuria popolare , ma il viatico, il transfert, l’intersezione di circostanze prima e di azioni e comportamenti poi, che hanno spostato il peso della colpa e l’assenza della rimozione in un continuo e lancinante ribaltamento. Tra i personaggi eastwoodiani,  questo “normal guy” della porta accanto, dagli occhi azzurri e l’espressione post adolescenziale, è sicuramente uno dei più disturbanti, tormentati, eppure disarmanti nella sua antinomia: ombra di se stesso per un duplice trauma (l’alcolismo che lo portò quasi alla morte, la perdita della prima gravidanza da parte della moglie) si accorge ben presto di essere seduto dalla parte sbagliata dell’aula quando capisce di aver ucciso lui involontariamente la ragazza, investendola durante una notte piovosa e convincendosi di aver colpito un cervo.

Questa rivelazione/rimorso mette in atto una serie di interventi da parte di Justin sulla riluttante giuria portata a chiudere velocemente  un caso cosi “evidente”  (l’imputato ha dei precedenti, è alcolista ed è stato visto discutere con la vittima la sera del delitto) che squarciano certezze, pregiudizi,  superficialità; il riferimento a La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet è altrettanto evidente, ma non si tratta certo della ripetizione di un meccanismo narrativo aggiornato ai tempi di una comunità multietnica, visto che stavolta sono asiatici e afroamericani istruiti e di ceto sociale superiore a giudicare il white male proletario e disadattato. Se il giurato Henry Fonda, il tipico borghese illuminato e virtuoso, convinceva gli altri 11 dell’innocenza del ragazzo ispanico accusato di aver accoltellato il padre, qui assistiamo a una spiazzante scissione tra apparenza e sostanza delle cose.  E l’effetto è amplificato dal fatto che, hitchcockianamente, come in Nodo alla gola e in La donna che visse due volte, il pubblico ha più informazioni di chi deve scoprire le verità: James Stewart poteva però avere ancora delle nemesi –  i due studenti esaltati convinti di aver compiuto il delitto perfetto e la manipolata e manipolatrice Judy /Madeleine – mentre Justin agisce simultaneamente per e contro di se (un’assoluzione chiuderebbe il caso ma forse riaprirebbe le indagini e lo metterebbe in pericolo) e quando questa insanabile dicotomia esplode in un palese corto circuito, non resta che il conformarsi e sparire, la sedia vuota, il rifugio nel focolare domestico per regredire al grado zero dell’autoassoluzione ( “sono una brava persona”), salvo poi tradirsi con un atto di presenza  e una confessione indiretta camuffata da riflessione morale.

È incredibile come Eastwood riesca a mettere in campo una tale ricchezza di prospettive, dimensioni, contesti – il sistema giudiziario americano, la coscienza degli esseri umani, il senso civico di una comunità – attraverso la trasparenza, la semplicità e la precisione del suo sguardo, integro per lucidità analitica e spessore poetico . Tutt’altro che opera terminale o mortifera – forse Clint il suo congedo lo ha già raccontato, tra il “nulla e l’addio”, in Million Dollar Baby – possiede un dinamismo essenziale nell’abitare gli spazi e attraversare i tempi, scandito da un pathos che fa restare attaccati ai fatti, alla loro consequenzialità e alle possibili versioni (di efficace intelligenza l’utilizzo di riprese e auto riprese tramite smartphone per testimoniare e contro testimoniare a favore di accusa o difesa) e fa vibrare il cuore e  la mente con la grandezza della portata dei conflitti a cui fa riferimento. La condanna/colpa/pena pagata ed espiata da un innocente,  talvolta anche con la morte, come in Mystic River in cui Dave Boyle (Tom Robbins) , abusato da bambino e presunto abusatore di bambini,  diventa la perdita dell’innocenza che si condensa in un’ ineluttabile alzata di spalle e in un’amara pantomima tra Sean Devine (Kevin Bacon), il poliziotto, e Jimmy Markum (Sean Penn).

E stavolta Eastwood ribadisce, con un’indignazione che però non viene esaurita e chiusa dentro la circolarità di un gesto, quanto la caduta riguardi gli innocenti e i colpevoli,  riesumando dai ricordi di Justin il dettaglio che traduce l’ipotesi di reato in qualcosa che è successo realmente. Un passaggio che si interroga, con un cocente senso della contemporaneità, sulla funzione delle immagini riprodotte dai dispositivi elettronici, frammenti presentati nel loro essere parziali e manipolabili, responsabili di aver alterato e di aver contribuito alla mistificazione della memoria, la cui elaborazione e ricostruzione  richiedono un impegno, una concentrazione e una centratura che consentono di definire i chiaroscuri e stagliano vividi i lineamenti di un volto. A un certo punto non c’è neanche più l’alibi dell’ambiguità, inclusa quella della moglie di Justin , che prima mente in maniera involontaria alla procuratrice e poi sceglie di stare dalla parte del marito. Il processo continua nelle maglie più private delle relazioni interpersonali e trova delle soluzioni/assoluzioni nel controcanto silenzioso di un neonato che dorme, con il frastuono in lontananza -per ora-  delle sirene della polizia. Ma non c’è nessuna direzione che rassicuri, fin dalla prima scena era chiaro il terreno franoso su ci si sarebbe trovati: così Justin che accompagna la consorte nella cameretta arredata dell’imminente nascituro, bendata non come la giustizia equa e imparziale ma come chi sta passando da uno stato di vuoto a uno di pienezza, è il simbolo e simulacro di una felicità alla quale  sacrificare logoranti scrupoli e ragionevoli dubbi. Prima che un’altra inversione di marcia non venga a bussare alla porta dell’ennesimo mondo perfetto.

In sala dal 14 novembre 2024.


Giurato numero 2 (Juror #2) –  Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Jonathan Abrams; fotografia: Yves Bélanger; montaggio: David S.Cox, Joel Cox; musiche: Mark Mancina; interpreti: Nicholas Hout, Toni Collette, J.K. Simmons, Chris Messina, Zoey Deutch, Kiefer Sutherland, Gabriel Basso; produzione: Dichotomy Films, Gotham Group, Malpaso Productions; origine: USA, 2024; durata: 114 minuti; distribuzione: Warner Bros.

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