Io tu noi, Lucio di Giorgio Verdelli

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L’autore, produttore, sceneggiatore napoletano Giorgio Verdelli (1959) con una ormai lunga carriera alle spalle, al cinema come in TV, si è specializzato negli ultimi tempi nei documentari musicali. Dal 2017 ne ha girati quattro, uno su Pino Daniele (2017), uno su Paolo Conte (2020)  e poi uno su Ezio Bosso (2021). Adesso, con perfetto tempismo, viene ripresentato su Netflix (in effetti era già arrivato su Rai 2 a settembre 2020) un altro documentario, dedicato a Lucio Battisti, di cui domenica 5 marzo si celebrava, si sarebbe celebrato l’ottantesimo compleanno, esattamente un giorno dopo il compleanno dell’altro Lucio, ossia Lucio Dalla, a cui Pietro Marcello (ma stiamo parlando di un prodotto di ben altra caratura) aveva dedicato nel 2021 il documentario Per Lucio.

Diciamo la verità questi documentari si assomigliano un po’ tutti perché rappresentano un coacervo di ridondanza e agiografia. Può variare il numero dei testimoni convocati, può variare lo spazio dedicato al footage, ma nella sostanza il prodotto non cambia. Nel caso di Io tu noi, Lucio (già il titolo non si può proprio dire che spicchi per originalità, ma Verdelli qualche problema con i titoli deve pur averlo, se si tiene conto che due dei documentari musicali appena menzionati utilizzano nel titolo il verbo “restare”, quello su Pino Daniele s’intitola Qualcosa resterà e quello su Ezio Bosso Le cose che restano) la ridondanza sfocia in bulimia, se è vero che i titoli di coda elencano, in ordine alfabetico, niente meno che 55 testimoni: da Renzo Arbore a Renato Zoppo, giornalista e autore di numerosi volumi di storia della musica pop e rock, fra cui diversi dedicati a Battisti.

E fra i 55 testimoni ovviamente non risultano coloro che sono presenti solamente in quanto presenti nel footage, una fra tutti Mina, uno dei documenti televisivi musicali più leggendari e cioé la puntata di Teatro 10 del 23 aprile del 1972 in cui Mina e Battisti diedero vita a un medley composto di canzoni di entrambi, poco più di nove minuti che resteranno nella memoria collettiva nazional-popolare, perché di lì a poco le apparizioni televisive di entrambi diventeranno sempre più rare fino a scomparire del tutto.

Quali sono i Leitmotive dei numerosi interventi di questa narrazione collettiva, interventi, peraltro, punteggiati di tanta, tantissima musica (bisognerebbe rivedere il documentario con il cronometro alla mano ma già adesso si può dire che i momenti in cui non si sente musica sono davvero pochissimi)? Mi pare di poterne segnalare almeno tre: 1) l’unicità leggendaria (anche se: tutto è ormai leggenda nella retorica agiografica italiana) di Lucio Battisti sospeso fra la canzone popolare e il cantautorato, ché Battisti, notoriamente, è autore delle musiche ma non dei testi che in tutta la prima parte della sua produzione (fino al 1980) sono affidati a Giulio Rapetti (in arte Mogol) e nella seconda parte a Pasquale Panella. Anche se forse l’elemento di novità di questo documentario è proprio la ridefinizione del concetto di cantautore che viene, stante la qualità della musica di Battisti, appunto a includere anche Lucio; 2) l’apertura internazionale di Lucio Battisti, quella che si potrebbe chiamare sia la sua intertestualità in entrata che intertestualità in uscita. Agli esordi, sul finire degli anni ’60, Battisti recepisce, come pochi altri all’epoca, le forme più avanzate di vocalità  e arrangiamenti soprattutto di stampo soul e rhythm and blues, ciò che lo differenzia in modo clamoroso dalle vocalità, anche le più avanzate, che andavano per la maggiore (dalla tradizione tenorile alla Claudio Villa fino al pop melodico-giovanile alla Gianni Morandi). E nella seconda metà degli anni ’70, dopo un quinquennio creativo semplicemente pazzesco, Battisti si apre a sonorità e arrangiamenti di chiara ispirazione britannica, grazie anche alla conoscenza dell’arrangiatore e produttore inglese Geoff Westley, negli anni in cui David Bowie scrive per Mick Ronson la versione inglese di Io vorrei…non vorrei…ma se se vuoi (titolo inglese Music is Lethal); 3) c’è poi tutta la questione politica. Il fatto che la fase di esplosione creativa di Lucio Battisti coincida cronologicamente (1969-1973) con il periodo in cui molta musica italiana è contraddistinta  dall’impegno o da un cantautorato linguisticamente molto avanzato e che soprattutto sul piano dei testi (ma quelli erano di Mogol) invece le canzoni di Battisti fossero all’insegna dell’amore, del disimpegno e di un individualismo molto marcato (l’unico tributo all’attualità era una certa vena proto-ecologica), ha reso per qualche tempo Battisti non in linea con le tendenze dell’epoca, lasciando circolare anche il sospetto che avesse velate simpatie di destra grazie a quelle che col tempo si sono rivelate leggende metropolitane. Ma al più tardi quando, nel 1978, nelle indagini per il ritrovamento di Aldo Moro si scopre, nel covo di Via Montenevoso che le BR possedevano l’intera discografia di Battisti, si capisce che siamo in presenza di un’opera davvero riconducibile a un immaginario collettivo nazional-popolare impossibile da ricondursi a un qualche schieramento politico.

Fra i 55 testimoni spicca Sonia Bergamasco, che funge per così dire da voce narrante, cornice, forse in funzione nobilitante, a mio avviso non esattamente necessaria.

Su Netflix


Cast & Credits

Io tu noi, Lucio; regia, sceneggiatura: Giorgio Verdelli; fotografia:  Roberto Pistonesi, Alessio Fiorillo, Luigi Scotto; montaggio: Matteo Bugliarello, Giulio Pellizzieri; produzione: Raiplay, Indigo Stories, Netflix; origine: Italia 2020; durata; 106′

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