L’arte della gioia di Valeria Golino (prima parte)

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Ad onta delle pur lodevoli iniziative promozionali come “cinema revolution”, che anche quest’anno dal prossimo 9 giugno consentirà l’accesso in sala alla modica cifra di 3,50 euro (per i titoli italiani ed europei), la stagione cinematografica nostrana parte convenzionalmente con la Mostra di Venezia e termina col Festival di Cannes; ovvero grossomodo da fine agosto a fine maggio, tranne qualche tardivo blockbuster estivo. Anche per questo motivo ci piace pensare che L’arte della gioia, serie-tv che Vision propone sul grande schermo in due tranche a partire dal 30 maggio (la seconda dal 13 giugno), contenga in sé molti dei temi che hanno caratterizzato la stagione che si sta consumando, e forse persino un vago Zeitgeist dei nostri tempi. Insomma una serie davvero “tipica” nel senso in cui tale vocabolo era inteso dal teorico marxista György Lukács: “Nell’arte tipica, si fondono la concretezza e la norma, l’elemento umano eterno e quello storicamente determinato, l’individualità e l’universalità sociale.” Scrive Lukács in Il marxismo e la critica letteraria: “Perciò nella creazione di tipi, nella presentazione di caratteri e di situazioni tipiche le più importanti tendenze dell’evoluzione sociale ricevono un’adeguata espressione artistica.” Innanzitutto perché – come ben sapranno coloro che hanno letto il romanzo di Goliarda Sapienza, da cui la serie è tratta – L’arte della gioia narra le vicende di una donna “animata da un insaziabile desiderio di conoscenza, di amore e di libertà – come si legge nel pressbook – disposta a tutto pur di perseguire la sua felicità, senza piegarsi mai alle regole di una società oppressiva e patriarcale a cui sembra predestinata”; ovvero, grossomodo, il tema di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, il film che quest’anno ha sbancato il botteghino con incassi impensabili, divenendo una sorta di manifesto politico dell’Italia ferita dai femminicidi. Non solo, la protagonista della serie, Modesta, è una ragazza “affamata di desiderio e di sapienza” proprio come la Madonna femminista raccontata da Barbara Alberti nel romanzo scandaloso Vangelo secondo Maria (divenuto di recente un film con Benedetta Porcaroli, in sala proprio in questi giorni); più o meno negli stessi anni in cui Goliarda Sapienza scriveva L’arte della gioia, romanzo fluviale e magmatico redatto tra il 1967 e il 1976, anch’esso ritenuto scandaloso al punto da essere pubblicato postumo. Ancora: per ottenere la sua emancipazione sociale ed erotica, Modesta non esita a ricorrere a espedienti estremi e cruenti, proprio come un altro eroe, prima letterario e poi televisivo, che ha segnato indelebilmente questa stagione: il Tom Ripley di Patricia Highsmith, adattato in questo 2024 da Steven Zaillian. C’è, infine, un ultimo dato da rilevare, che attiene però in questo caso alle più pragmatiche pratiche produttive, le quali hanno tuttavia un’evidente ricaduta anche sul versante artistico. Per ovvi motivi (Catania e dintorni sono protagonisti assoluti della vicenda), L’arte della gioia è stata realizzata con il sostegno della Regione Siciliana e della Sicilia Film Commission, paesaggio che ha funto da teatro di moltissime narrazioni della stagione ancora in corso: da The White Lotus, la serie tv girata a Taormina che è diventato un fenomeno da Tripadvisor, alla serie Rai, Màkari, che ha rinverdito i fasti de Il commissario Montalbano, con Scicli e Ragusa trasformate in mete di pellegrinaggio; dal nuovo Gattopardo targato Netflix, con Kim Rossi Stuart nei panni che furono di Burt Lancaster; a I leoni di Sicilia di Paolo Genovese, che ha trasformato il best-seller di Stefania Auci in una applaudita serie, presentata all’ultima Festa del cinema di Roma. Una “tipicità”, quella su cui si è tentato sin qui di congetturare, di cui sembra essere consapevole anche la regista della serie, Valeria Golino, che la presenta così: “L’arte della gioia è un inno alla libertà, all’autocoscienza e all’autodeterminazione, ma anche al dissenso e alla disobbedienza. Personalmente non credo ci sia messaggio più forte e contemporaneo per il pubblico di oggi.” Ciò detto e premesso, si inizi col dire che la serie di cui parliamo ha avuto l’onore di essere proiettata in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, che è già un certificato di qualità. Anche se la Golino è una habitué sulla Croisette: i suoi precedenti lungometraggi da regista, Miele e Euforia, erano entrambi passati per la sezione “Un Certain Regard” Come si è anticipato, la serie narra la storia di Modesta, nata nel 1900 in una Sicilia aspra e spietata; arcaica e retriva, come era pure nel XVIII secolo raccontato da un’altra scrittrice contemporanea, Dacia Maraini, in Marianna Ucria, da cui Roberto Faenza trasse l’omonimo film. Qui come lì si staglia la figura fiera di una donna che trae la forza del proprio riscatto, prima umano e poi sociale, dopo aver subito il più orribile degli abusi sessuali, quello incestuoso. Così ci appare al principio della saga: rinvenuta esanime dopo la violenza carnale; lacera e scalza, sordida e lercia come Il ragazzo selvaggio di Truffaut; abusata da un maschio aguzzino che forse uccide sua mamma e sorella perché “non si stavano mai mute” (torna in mente il suocero di Giorgio Colangeli di C’è ancora domani, che rimproverava la nuora di “parlare troppo”). Dopo quel delitto esecrando, saranno ancora altri crimini orrendi, indicibili, irriferibili persino, non solo per ragioni di spoiler. Quindi le tappe di questa via crucis di resurrezione, dalle stalle sulla Chiana del Bove, alle pendici dell’Etna; alle stelle dei palazzi nobiliari, ricreati nei gioielli architettonici del capoluogo etneo: la serie è stata girata tra la Cattedrale e Porta Uzeda; e ancora in piazza Asmundo, via San Benedetto, via Crociferi, sulla scalinata Alessi, in piazza Dante e a Palazzo San Giuliano di piazza Università. Adottata da un convento popolato soltanto di novizie provenienti dalle famiglie della migliore nobiltà siciliana, Modesta viene accolta sotto l’egida amorevole (e qualcosa di più) di Madre Leonora, interpretata da Jasmine Trinca. Dalla lettura di Sant’Agostino, la giovane apprende che il desiderio – la vita come lo chiama lei – è “peccato, male, inferno”. Ma lei, come l’Ewan McGregor di Trainspotting, sceglie la vita. Perché, ora è chiaro – ricordate il “tipico” lukàsiano? – in queste narrazioni dei nostri anni ’20, la donna negletta e vessata più non cede, mai prona. Come l’eroina di Cortellesi, Modesta si alza fiera e reagisce, punisce i suoi carnefici, in una morale vindice da Antico Testamento. Reagisce però – e qui sta lo scarto scandaloso della storia di Sapienza, che le ha a lungo precluso le vie editoriali – anche alla tradizione della decenza. All’esempio tragico di Sant’Agata (la santa patrona di Catania), modello virtuoso di castità e temperanza fino al sacrificio della vita, Modesta – affamata di appetiti elementari sin da giovane, anzi giovanissima età – opporrà l’arte della gioia, per l’appunto. Trasferita presso il palazzo nobiliare di una famiglia blasonata, l’eroina di Sapienza e Golino (interpretata con trasognata intensità da Tecla Insolia, nata a Varese da genitori siracusani e vista nei panni di Nada ne La bambina che non voleva cantare) conoscerà ancora le gioie dell’amore saffico e l’orrore di una fantomatica “la cosa”, che non ha nulla a che vedere col film di Nanni Moretti sulla fine del Pci … Si tratta invece di un mistero poco buffo che sarebbe crudele svelare; un tipico cliffhanger che ci proietta verso gli ultimi tre episodi, che già si preannunciano pregni di capitoli torridi e forse persino torbidi (e che recensiremo la prossima settimana). Per ora va detto che la serie è – come si sarà intuito – piena zeppa di aspetti interessanti, che rendono impossibile sottrarsi alla curiosità di quel che segue; sebbene col passare degli episodi si ha come l’impressione che la narrazione proceda talvolta con qualche stanchezza di troppo e con una spiacevole mancanza di ritmo. Come se gli autori, tutti di primissimo rango (Luca Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella, Stefano Sardo, insieme alla stessa Golino) non siano stati sempre capaci di imbrigliare una materia letteraria, sfuggente e magmatica per definizione, come è quella del libro d’origine, donandole il piglio e il nerbo necessari. Menzione speciale per Valeria Bruni Tedeschi, che ormai sembra recitare con un tasso di veridicità persino imbarazzante. Interpreta una nobildonna piemontese di origine francese, che ama il bello e odia il brutto, compreso il nome della nostra eroina (“Modesta? Che aggettivo deprimente!”). Insomma un personaggio modellato a sua misura – si direbbe – che con la sua alterigia, le sue idiosincrasie, la sua stizza, un certo dispotismo aristocratico e molta isterica joie de vivre, aggiunge vigore al racconto nell’attimo esatto in cui questo sembrava star sul punto di perderlo. Vedremo il seguito (con una certa impazienza) …   In sala dal 30 maggio (1 parte)
L’arte della gioiaRegia: Valeria Golino,  Nicolangelo Gelormini; soggetto: dal libro omonimo di Goliarda Sapienza; sceneggiatura: Valeria Golino, Luca Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella, Stefano Sardo; fotografia: Fabio Cianchetti; montaggio: Giogiò Franchini; musica: Tóti Guðnason; interpreti: Tecla Insolia, Jasmine Trinca, Valeria Bruni Tedeschi, Guido Caprino, Alma Noce, Giovanni Bagnasco, Giuseppe Spata; produzione: Sky Studios e Viola Prestieri per HT Film; origine: Italia, 2023; durata: 6 episodi da 60’ circa; distribuzione cinema: Vision Distribution.  

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