Summary
Il quarto titolo dell’era Kerr, Curry, Thompson e Green ha origini lontane, spesso pianificate altre volte legate al caso. Una breve cronistoria di Golden State, successi e sconfitte di una squadra leggendaria che ancora non ha smesso di vincere.
Quando i Chicago Bulls presero Michael Jordan, con un po’ di fortuna visto che per diritto di chiamata avrebbero potuto selezionarlo sia i Portland Trail Blazers sia gli Houston Rockets, tutti erano convinti che negli anni a venire, se la dirigenza di Windy City avesse messo a disposizione dell’astro nascente un discreto gruppo di supporto, i titoli sarebbero arrivati. Fu un processo lungo, fatto di cocenti sconfitte, ma gli anelli conquistati alla fine furono sei con in mezzo un anno sabbatico perché il futuro miglior giocatore di tutti i tempi decise di darsi al baseball.
Quando i Los Angeles Lakers acquisirono Kareem Abdul-Jabbar dai Milwaukee Bucks e quattro anni dopo scelsero Earvin “Magic” Johnson, forse non furono in grado di prevedere con certezza i risultati che avrebbero ottenuto, ma la segreta speranza di dare vita a una dinastia, quella l’avevano di sicuro. Poi Winning Time, la serie attualmente in onda su Sky Atlantic, ha spiegato bene quanto il caos porti imprevedibilmente a un disegno ben tratteggiato.
Sempre i Lakers, negli anni Duemila fecero tre operazioni che avrebbero riaperto un ciclo vincente con l’arrivo di Shaquille O’Neal (dal 1996 al 2004) e di Pau Gasol (dal 2008 al 2014) e con la scelta al draft abbastanza avventurosa di Kobe Bryant nel 1996. Anche in quel caso la consapevolezza di avere una squadra in grado di conquistare titoli era più che giustificata. Lo stesso accadde ai San Antonio Spurs con la scelta di Tim Duncan e i successivi arrivi di Tony Parker e Manu Ginobili o con l’avvento ai Cleveland Cavaliers e poi ai Miami Heats e ai Los Angeles Lakers di LeBron James. Momenti, quelli appena elencati, che davano ampie speranze a dirigenze e supporter di festeggiare titoli in gran numero.
Lo sport è imprevedibile, e la pallacanestro non fa eccezione alla regola. Jordan dovette costruire un fisico diverso per sopportare le legnate che prendeva nei campi di Boston, New York e, soprattutto, di Detroit. LeBron James ha cambiato tre squadre per dimostrare di possedere un talento vincente, rinunciando all’idea di contribuire alla crescita di una vera e propria dinastia. Kobe Bryant ha subito ogni genere di critica e se la gara sette del 2000 con i Portland Trail Blazers, quasi persa, non fosse stata miracolosamente ribaltata, forse la sua storia di atleta avrebbe preso una direzione diversa. In generale, però, quando si parla di giocatori come Earvin Johnson, LeBron James, Kobe Bryant, Tim Duncan e altri ancora, non si tratta di capire se uno o più titoli arriveranno ma solo di sapere quando tutto ciò accadrà.
Fin qui tutto nella norma. Le cose cambiano se iniziamo a parlare dell’ascesa e dei successi dei Golden State Warriors tra il 2015 e il 2022. Qui si entra in un discorso che difficilmente potrà restare coerente lungo tutto il percorso. Perché la squadra di San Francisco (ex Philadelphia e Oakland), protagonista al momento di sei finali NBA nelle ultime otto stagioni e vincitrice di quattro titoli, l’ultimo dei quali conquistato pochi giorni fa contro i Boston Celtics, è un combinato di caos e pianificazione, di sentimenti e razionalità, di fortune e sfortune. Insomma, la casualità che incontra e fa amicizia con la causalità.
È faticoso anche indicare il punto di partenza. Per logica si potrebbe scegliere il momento nel quale la dirigenza di Golden State scelse nel 2009 con la settima chiamata a disposizione, Stephen Curry. Il giocatore che a distanza di anni avrebbe rivoluzionato il gioco, dimostrando che la forza di gravità può essere esercitata anche da un uomo alto un metro e ottantotto che esercita su di sé l’attrazione di due, talvolta tre, difensori sin dalla linea di metà campo. Il più grande tiratore di tutti i tempi che, proprio per questo motivo, allargando il campo, ha reso la vita facile ai suoi compagni, liberi di tirare da lontano e da vicino. L’atleta che nel corso degli anni si è evoluto al punto da sfruttare a suo favore tutte le strategie degli avversari, quelle che esattamente prevedevano il suo annientamento. Niente tiro da tre? Allora ti brucio andando dritto a canestro. Aree intasate per scongiurare le penetrazioni, allora ricomincio a bucarti da tre. Scegli pure la tua fine!
Ecco, però, tutta questa potenza era ignota agli Warriors, e anche ai Minnesota Timberwolves che avevano a disposizione ben due scelte, la cinque e la sei, e che optarono per Ricky Rubio, ottimo playmaker spagnolo che a ulteriore beffa decise di accettare la chiamata solo due anni dopo, e Jonny Flynn, non quel tipo di giocatore capace di lasciare un gran ricordo delle proprie doti. La leggenda narra che vi fu un momento nel quale il futuro all star (che peraltro inizialmente gradiva come meta New York e non Oakland) sia stato stato sul punto di essere ceduto ai Phoenix Suns per un ottimo giocatore, Amar’e Stoudemire, però col difetto di essere mezzo rotto. Nel giro delle porte, alla fine, Curry si unì agli Warriors, una squadra che non veleggiava nelle prime posizioni e che aveva in Monta Ellis il suo eroe indiscusso. Uno che non accolse con gioia l’arrivo del rookie che minacciava di prendere il comando delle operazioni al suo posto.
Nel 2011, con la scelta numero undici, arriva Klay Thompson. Un’altra porta girevole. Infatti, anche in questo caso, si possono elencare alcune squadre che avrebbero potuto selezionare il grande tiratore, quello che con Curry formerà poi la coppia degli Splash Brothers, e l’ancor più eccellente difensore. Prima di Thompson furono presi Derrick Williams (seconda chiamata assoluta dei recidivi Timberwolves), Jan Veselý (sesta scelta dei Washington Wizards), Jimmer Fredette (decima scelta dei Milwaukee Bucks, ceduta immediatamente ai Sacramento Kings). Una volta di più, la storia si ripete. Non lo sapeva nessuno cosa sarebbe diventato Thompson. Neanche gli Warriors che all’epoca non erano a conoscenza di avere un autentico primo violino che si adattava perfettamente a fare la sua parte (e che parte) senza battere ciglio. Uno che avrebbe realizzato trenta punti a partita in un’altra squadra e che a Oakland e San Francisco spesso si è messo al servizio di Curry e Kevin Durant.
Se l’elenco per arrivare a Curry e Thompson è lungo, interminabile è quello che conduce a Draymond Green, scelto addirittura per trentacinquesimo. Nota a margine: se qualcuno volesse scrivere un romanzo ucronico, con oggetto i festeggiamenti nel Minnesota di una gloriosa squadra di basket al suo quarto titolo in otto stagioni, è utile sapere che nel 2012 i Timberwolves non possedevano scelte utili per selezionare Green.
Questa volta è interessante puntare lo sguardo non su quello che non hanno fatto gli altri, ma sulle azioni degli stessi Warriors, solo per ribadire quanto poco esatta sia la scienza delle scelte al draft. Alla sette, Golden State selezionò Harrison Barnes, un ottimo giocatore fondamentale per il primo titolo vinto nel 2015 e per quello sfiorato nel 2016, e non riconfermato solo per ragioni salariali. Fin qui nulla di strano. L’allora squadra di Oakland, però, prese alla trenta il nigeriano Festus Ezeli, un onesto rincalzo, e lasciò andare Khris Middleton, un autentico fuoriclasse che i Detroit Pistons presero per cederlo immediatamente ai Milwaukee Bucks, altra franchigia, quest’ultima, su cui sarebbe interessante soffermarsi per mostrare come si sia formata e poi sia arrivata al titolo lo scorso anno.
Se il ruolo di leader di Stephen Curry divenne chiaro abbastanza presto, cioè a partire dal 2012, quando la nuova proprietà decise, a suon di fischi e contestazioni, di spedire altrove l’idolo locale Ellis e di puntare tutto sul “piccoletto” col numero trenta, per Green e Thompson le decisioni sono passate attraverso un paio di porte girevoli che nuovamente confermano il punto di incontro tra la grande capacità di pianificazione e la casualità. È il 2014. L’allenatore ben voluto dai giocatori e dal pubblico, Mark Jackson, è stato appena licenziato. Gli ottimi risultati nei due anni precedenti con play-off e divertimento assicurato per tutti non sono bastati a fargli conservare il posto.
L’allora impopolare proprietario Joe Lacob e il suo staff hanno un’intuizione: vedono in Steve Kerr il condottiero che li condurrà alla gloria. Un ottimo curriculum alle spalle, ma come allenatore, zero esperienza, un esordiente. Altre questioni sono sul tavolo, la più importante: cedere Klay Thompson, indovinate a chi? Già proprio a loro, ai Minnesota Timberwolves, in cambio di Kevin Love. Solo l’intervento di Jerry West, l’ex stella dei Lakers che in Winning Time abbiamo imparato a conoscere in veste di consulente nevrotico che lotta costantemente con i suoi demoni e che in quel momento era al servizio degli Warriors, evita lo scambio. Thompson rimane a Oakland e la leggenda degli Splash Brothers ha inizio.
Il nuovo allenatore, oltre a dover convincere una giocatore di primo livello come Andre Iguodala a partire dalla panchina da sesto uomo (spoiler: vincerà il premio come miglior giocatore delle finali 2015), è alle prese con un ulteriore dilemma: David Lee. È ormai un veterano ed è difficile metterlo da parte, ma il gioco di movimento perpetuo che ha in mente Kerr va a una velocità superiore alle possibilità di Lee. Così ci pensa la sorte. Il veterano si fa male e a salire di un piano è Draymond Green. Proprio lui, quello che era stato preso per trentacinquesimo nella distrazione generale. Inutile girarci intorno. Senza Green probabilmente non vi sarebbero stati i successi in sequenza. Atleta esuberante e spesso sopra le righe, dal ruolo non identificato. Non il classico lungo, nemmeno in possesso delle doti dei piccoli. Eppure difensore sopraffino e attaccante con istinto e ragione, insomma un regista sui due lati del campo. L’anima degli Warriors.
Se è vero che nell’attimo in cui Thompson si è fracassato un ginocchio, Golden State ha definitivamente perso le finali del 2019 con i Toronto Raptors e ha mancato i play-off per due anni di seguito, anche perché dopo aver recuperato dal primo grave infortunio, è saltato un tendine d’Achille, con Green squalificato gli Warriors persero la gara che avrebbe dato il titolo 2016 contro i Cleveland Cavaliers di LeBron James e di Kevin Love (già, quello dei Timberwolves, tutto torna!), l’anno delle settantatré vittorie nella stagione regolare. E quando nelle finali di quest’anno contro i Boston Celtics, Green ha giocano sottotono, a San Francisco hanno temuto che il quarto titolo, quello del ritorno, quello forse più bello perché inaspettato, stesse per prendere il volo per il Massachusetts. Le incredibili gare cinque e sei contro Boston sono là a testimoniare la grandezza di Green.
Altra nota a margine: dalla prima stagione di Kerr in panchina, gli Warriors hanno giocato ventiquattro serie di play-off, perdendone solo due, le finali con Cleveland nel 2016 e con Toronto nel 2019.
Fin qui le scelte importanti, la fortuna e le vittorie. Ci sono state anche le sconfitte e il conto da pagare al demonio, si sarebbe potuto dire con una metafora. Ad esempio, nel già citato 2016, la stagione dei record, quando Curry vinse il premio per il miglior giocatore dell’anno per la seconda volta di seguito. A un certo punto, l’infortunio al ginocchio sempre di Curry, le conseguenti precarie condizioni fisiche, la già menzionata squalifica di Green reo di aver colpito LeBron James, la gara sette con Cleveland e il canestro impossibile di Kyrie Irving allo scadere. Sembrava che davanti al Faust/Joe Lacob si fosse presentato il diavolo per chiedere indietro l’anima.
E invece no. Quella dolorosa sconfitta si trasformò in un successo. L’anno seguente arrivò Kevin Durant e con lui quella squadra diventò nuovamente imbattibile. Un trasferimento sorprendente quello dell’asso degli Oklahoma City Thunder, reso possibile da un’altra di quelle strane circostanze che coinvolgono gli Warriors. I conti del tetto salariale tornarono solo perché Curry accettò un compenso decisamente più basso a causa delle sue caviglie fragili. Sembrava un azzardo legarsi a un giocatore soggetto a infortuni. E così le parti si vennero incontro. E accadde che uno dei cosiddetti top player accettasse di firmare un contratto al ribasso. Attualmente gli Warriors hanno sfondato il tetto salariale e pagano multe salate, all’epoca però certi conti dovevano tornare, non esisteva ancora la leggenda e nemmeno la nuova arena a San Francisco, il Chase Center. Per questo, forse, le caviglie di Curry permisero l’arrivo di Durant. Nota a margine: con i contratti successivi potete stare tutti tranquilli, anche i Curry che abiteranno su Venere saranno ricchi.
Dal 2017 al 2019 furono due anni di successi. Quasi tre. Ma un’altra volta il diavolo parve tornare alla Baia. Nelle Finals, prima un grave infortunio a Durant al suo ultimo anno con gli Warriors, poi a Thompson, e il titolo prende la via di Toronto. Sembra la fine di tutto. Due stagioni nelle retrovie senza disputare i play-off.
E invece no. È solo il lungo e lento inizio dell’attuale stagione vincente. Molti avrebbero smobilitato per rifondare con un progetto al lungo termine. Altri in preda al panico avrebbero comprato e strapagato giocatori forti, magari giunti a fine carriera. È sufficiente vedere quello che hanno combinato in California, Lakers, Clippers e Kings, giusto per restare in zona. Scelte totalmente errate anno dopo anno per la squadra di Sacramento. Contratti che bloccano ogni possibile sviluppo nelle due franchigie di Los Angeles.
Con l’arrivo di LeBron James ai Lakers è arrivato un anello, ma nella stagione particolare della pandemia e della bolla di Orlando. Quel che sappiamo con certezza, è che per aggiudicarsi il campionato 2020 il prezzo è stato elevato e le conseguenze tutte da scoprire: via i giovani presi dopo il ritiro di Kobe Bryant in cambio del fuoriclasse richiesto da James: Anthony Davis. Ora i Lakers sono inchiodati ai loro contratti, compreso quello di Russell Westbrook che, dopo il disastro di quest’anno, non trovano il modo di scaricarlo per avere dei ricambi ideali, visto che James va per i trentotto anni e Davis occupa stabilmente l’infermeria.
Gli Warriors, no. Aspettano Thompson offrendogli un contratto al massimo possibile, e intanto formano giocatori giovani come Jordan Poole, Jonathan Kuminga, Moses Moody e James Wiseman. Curry e Green rifiatano dopo sei stagioni a mille, e campioni che non sbocciavano come Andrew Wiggins finalmente mostrano il loro autentico valore. Una domanda: con chi giocava Wiggins? Ebbene sì, con i Timberwolves! La prima scelta assoluta nel draft 2014 dei Cleveland Cavaliers spedita, appunto, nel Minnesota in cambio di Kevin Love… proprio lui, quello che doveva arrivare al posto di Klay Thompson.
Anche dai momenti negativi, finora Golden State ha tratto il meglio. Forse solo i San Antonio Spurs possono rappresentare un precedente. Dopo due decadi in cima, i texani avevano trovato uno dei migliori cinque giocatori di tutta la NBA. La dinastia poteva continuare. Qualcosa però non ha funzionato, perché Kawhi Leonard nel 2018 ha deciso di lasciare gli Spurs costringendoli, di fatto, a una rifondazione lunga e dagli esiti incerti. A dimostrare che pianificazione e fortuna non sempre aiutano a portare a termine piani diabolici. Per gli Warriors saranno ancora successi? O diventerà come i Minnesota Timberwolves? Quando la casualità fa amicizia con la causalità non è mai possibile rispondere se non aspettando il corso degli eventi. Intanto buon divertimento, perché una cosa è certa, gli Warriors sono il miglior spettacolo possibile per chi ama la pallacanestro.
Ultima nota a margine: i Minnesota Timberwolves hanno messo su una squadra molto forte con Anthony Edwards, Karl-Anthony Towns e D’Angelo Russell. Che il 2023 sia il loro anno?