Non volere volare di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson

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Dopo Volare, il non eccelso esordio registico di Margherita Buy che già problematizzava una delle più diffuse fobie, quella dell’ aereo, attraverso la struttura del racconto da commedia intimista esistenziale (e in quel caso anche autobiografica), arriva un altro film a darci la sua versione farsesca e tenera di questa paranoia cosi emblematica di una certa tipologia nevrotica di individuo. Non volere volare di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, scelto dai titolisti italiani forse per rendere più esplicito il soggetto rispetto al maggiormente simbolico originale Northern Comfort, il nome del cocktail che viene offerto ai personaggi nell’ hotel a cinque stelle in cui sono costretti a stazionare loro malgrado, pur partendo come la Buy da una centralità dello sguardo femminile, si apre a una coralità: sono quattro, una donna, un uomo e una coppia, i fobici giunti alla tappa conclusiva di un training anti panico che consiste in un viaggio di andata e ritorno da Londra all’ Islanda, e il loro interagire, o per meglio dire, l’esplicarsi delle loro nevrosi in una situazione costrittiva (rimangono bloccati in Islanda per una tempesta di neve) è il perno intorno a cui ruota tutta la visione e l’attenzione. Come si diceva, prospettiva privilegiata è quella del personaggio femminile, la working girl Sarah che incarna in un certo senso l’ultima destinazione delle donne in carriera, che hanno rimesso in gioco il loro privato senza rinunciare alla realizzazione professionale. Non si tratta però di una scelta di libertà e di emancipazione, ma la forzatura di un atto di volontà funzionale a convincere il nuovo fidanzato con ingombrante prole a carico che l’autodeterminazione può tutto anche in amore (deve “guarire” per poter partire assieme alla potenziale nuova famiglia per un vacanza a Capo Verde).

E anche le storie degli altri passeggeri si concentrano sulla rimozione della propria ferita di inadeguatezza attraverso un atto di volontà: Edward, che ha la storia più drammatica alle spalle legata all’esperienza nella mai troppo ricordata e menzionata guerra tra Inghilterra e Argentina per il controllo delle isole Falkland, reagirà all’esclation degli imprevisti facendo ricorso proprio alla sua forma mentis da tatticista militare con lampi paranoici, mettendo in scena, rimanendo sul piano del racconto, gli aspetti comici e tragici dell’essere confinati in uno spazio sul quale proiettare paure e diffidenze, e relative strategie di difesa, contromosse sullo scenario di quel lussuoso resort in mezzo al bianco ancestrale di una terra cosi vulcanica e viscerale come l’Islanda. Affianco all’evocazione di un passato ancora tanto controverso che ha lasciato conseguenze devastanti su molti uomini della generazione di Edward ( interpretato con la solita aria tra lo stralunato e il disilluso da Timothy Spall, cresciuto nell’entourage di Mike Leigh, che della tragicommedia ha fatto un elemento centrale della sua poetica), c’è però anche la fotografia attuale della coppia di influencers, Alfons e Coco, dove il rifiuto di volare si fa l’espressione di un disagio della coppia in tempo social, ovvero di quanto la virtualità di una pagina/patina Instagram non possa contenere la rabbia e la frustrazione, questa volta di lui obbligato ad adempiere al ruolo di partner perfetto per incrementare il numero di followers direttamente proporzionale alla crescita del conto in banca e di una vita fatta di lusso e frivolezza. Un episodio questo che parla tra l’altro anche alla nostra stringente cronaca da gossip, vista la pubblicizzatissima separazione tra Fedez e Chiara Ferragni, anch’essi coppia influencer vittima e carnefice della propria esposizione mediatica e del relativo sbilanciamento di poteri e dipendenze. E l’unica risposta possibile torna ad essere l’appellarsi ad un super controllo che, seppur declinato in diverse forme (dall’attitudine, applicata in qualsiasi aspetto dell’esistenza, al problem solving di Sarah, alla lucida follia di Edward, fino all’opportunistico pragmatismo di Coco imposto sul bisogno di autenticità agognato rabbiosamente da Alfons), segno di un’epoca che tiene alla superficie riflettente dello schermo in quanto attaccatura a una concretezza, una materialità, perfino al rassicurante involucro dell’inquadratura su un canale virtuale, in contrapposizione all’inclassificabile e indefinibile pericolo che rappresenta il vuoto e il rischio di caderci dentro senza il paracadute di una qualsivoglia community. Questo addestramento alla vita non possiede però la propulsione e la forza di un’ epica del quotidiano, del passaggio dall’ordinario di un privato infelice e ansioso a uno straordinario di un collettivo che accoglie, cura e offre il quid per poter cambiare direzione o invertire la rotta. Sigurðsson, molto attento al ritmo, segue la rapsodia episodica che sa intrattenere, divertire nel suo mix di buffo e tenero, restando sul liminale di una riflessione sociologica che passa dai caratteri della pochade per arrivare alla verità e riconoscibilità di alcuni tipi psicologici nei quali è possibile riconoscersi e con i quali si empatizza. Non arriva infatti un atteggiamento di sarcasmo o di scherno, di critico distanziamento da parte del regista-sceneggiatore, ma un approccio di affettuosa comprensione, il processo, restituito anche nell’esperienza dello spettatore, di ridere non dei ma con i personaggi.

La mdp si mette al loro fianco, ne coglie lo smarrimento e la preoccupazione, e insieme quel piccolo salto nel buio che ne accende il desiderio e la gioia di vivere oltre la rigidità di un programma già stabilito in ogni minimo dettaglio. La scrittura, un aspetto decisamente più curato rispetto alla regia come frequentemente avviene per le commedie, sottolinea infatti i momenti di collisione tra l’ossessività controllante dell’eterogeneo quartetto di turisti per caso e la variabile spiazzante degli elementi (la natura, tra il cielo e il paesaggio islandese, è il controcampo dell’ ingarbugliato scenario mentale di questi anti eroi piccoli piccoli), e introduce in contrappasso la figura dell’istruttore del corso per aereofobici: non la guida sicura e saggia che aiuta gli allievi a superare almeno in maniera estemporanea lo stato ansiogeno, ma l’inesperto neofita schiacciato tra l’ottimismo aziendale e le proprie specifiche insicurezze palesate soprattutto nel momento dell’incognito. Se invece vogliamo parlare di un contrappasso dal punto di vista narrativo, è paradossale che un film nel quale alla fine avviene la celebrazione della perdita del controllo e della riappropriazione delle emozioni represse sulla logica molto occidentale, anglofila e in parte mitteleuropea, della razionalità che può contenere e spiegare ogni cosa, resti imbrigliato nelle rifinite maglie di uno script fin troppo studiato e dimostrativo. A volte si sente l’esigenza di un’ esplosione deflagrante di nonsense , a L’aereo più pazzo del mondo, dove una certa retorica, anche sulla paura dell’aereo, veniva smontata e destruttura dalla gag demenziale o surreale, dal parossismo del mettere alla berlina la sicumera del passeggero che ha accorciato le distanze spaziali e temporali, ma senza fare realmente i conti con le sue paure più profonde.

L’attenzione di Sigurðsson, che talvolta diventa esitazione sul tono da scegliere (satira sociale? commedia drammatica? racconto di formazione?), mantiene uno sguardo amorevole e smaschera gradualmente le resistenze di ogni suo personaggio, ma non con la mano mordace o aggressiva del graffio o ancor di più della zannata. In questo caso il termine smascherare viene riportato al significato letterale di togliere la maschera che è spesso smorfia costante nella prima parte di tensione pre e post partenza, in particolare in Sarah ed Edward; mano a mano il ghigno isterico si trasforma nella più distesa consapevolezza, e poi accettazione, di un limite valicabile, attraversabile, non senza ritorno ma con un altro ritorno, e questo fa comprendere anche la volontà di offrire un privilegiato point of view a Sarah, nell’estendersi di un percorso (s)radicato più degli altri dal pantano del condizionamento socioculturale e mirato alla scoperta di una nuova soggettività (lo stesso si potrebbe dire per Alfons e Coco nel riformulare il paradigma della coppia tra il dentro e il fuori in un contesto inestricabilmente reality). Dunque è fin troppo chiara la metafora del volo come completa e assoluta espressione di adesione alla vita e contatto nucleare, sotto la stratificazione delle pose isteriche e deformate, con ciascuna singola e irripetibile identità. Non lo specchio frammentato in schegge di nevrosi e di follia  di come si è visti esternamente (a parte la maniacalità/fissazione degli influencer, tutti vengono ripresi in continuazione, simulando una testimonianza dell’esperienza, in contrapposizione con il suo effettivo svolgimento): si tiene a far emergere l’umanità in sottofondo, attutita solo dal rumore patetico delle urla e dei gridolini.

Spunti e riflessioni interessanti sulla carta d’imbarco, che non decollano mai con la potenza di un urlo liberatorio, ma si limitano, punzecchiati dallo spillone di una rassicurante medietà, ad un sorriso o al massimo a una risatina a denti stretti.

In sala dal 18 aprile 2024


Non volere volare (Northern Confort ) – Regia: Hafsteinn Gunnar Sigurðsson; sceneggiatura: Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, Tobias Munthe; fotografia: Niels Thastum; montaggio: Kristjan Loomfjoro; musica: Daniel Bjarnason; interpreti: Timothy Spall, Lydia Leonard, Ella Rumpf, Sverrir Gudnanson, Simon Manyonda ; produzione: Good Chaos ; durata: 91 minuti; origine: Regno Unito/Islanda/ Germania, 2024; distribuzione: I Wonder Pictures.

 

 

 

 

 

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