Partiamo da una prima banale domanda: si sentiva il bisogno di un ulteriore remake di Nosferatu dopo due capolavori, quello di Friedrich Wilhelm Murnau (1922, ad ormai più di un secolo di distanza, interpretato da Max Schreck) e il più recente, quello di Werner Herzog (1979), senza dimenticare il non certo disprezzabile Dracula di Bram Stoker, diretto e prodotto nel 1992 da Francis Ford Coppola? E a non tener conto, poi, delle centinaia e centinaia di film che includono riferimenti vari al personaggio di Dracula – secondo il portale Internet Movie Database (IMDB), vent’anni fa, nel 2004, erano arrivati a “solo” 650.
Risposta: a nostro personale parere – malgrado le lodi che si possono leggere su una parte della stampa americana – è un secco no. E vediamo perché, dato anche il fatto che il newyorkese Robert Eggers, giunto al successo con il suo debutto horror The Witch nel 2015, seguito poi da The Lighthouse (2019, forse in assoluto il migliore dei suoi lavori), sembra(va) essere un regista di talento – e già dal successivo, non eccelso The Northman (2022), aveva dichiarato di essere al lavoro, da diverso tempo, a un proprio riadattamento del superclassico di Murnau. Di cui ha conservato i nomi dei protagonisti che per ragioni di diritti il sommo regista tedesco aveva dovuto mutare da quelli del romanzo originario dello scrittore irlandese (ed infatti il suo film venne citato in giudizio all’epoca per ragioni di plagio). Ma a parte questa concessione secondaria, Eggers probabilmente si è fatto in primis ispirare, estremizzandolo, da uno degli aspetti più “forti” della versione di Werner Herzog e che Murnau aveva potuto solo accennare negli anni Venti – parliamo dell’attrazione fatale sotto l’aspetto erotico tra la bella protagonista e la bestia alias il mostro Conte Orlok/Nosferatu/Dracula.
Per i pochi che non ricordassero i rudimenti della storia, qui due righe a riguardo: dopo un orribile, profetico sogno/ricordo d’infanzia della giovane Ellen Hutter (Lily-Rose Depp), salto temporale e ci ritroviamo nel 1838 nella città portuale di Wisborg (boh! non era Wismar?), in Germania. Qui la donna si è appena sposata con un agente immobiliare, Thomas (Nicholas Hoult), a cui il suo bizzarro datore di lavoro, Herr Knock (Simon McBurney) assegna un ingrato ma lucroso affare: quello di recarsi in uno spettrale castello sui monti Carpazi, in Transilvania per vendere al conte Orlok (Bill Skarsgård) una dimora, una volta signorile ora in decadenza, situata in città nelle vicinanze di dove abitano gli Hutter. Malgrado le resistenze della moglie che rivela al marito di essere molto turbata dai suoi incubi premonitori e demoniaci, Thomas parte per la sua missione lasciandola alle cure di Friedrich (Aaron Taylor-Johnson) e Anna (Emma Corrin), una coppia benestante loro amica. Arrivato in Transilvania, il protagonista malgrado l’ostilità dei contadini rom, il consiglio a non proseguire per il luogo considerato maledetto e una nottata dove ha potuto seguito un barbaro rituale contro i vampiri, raggiunge il castello dove viene accolto dal Conte Orlok che gli fa firmare subito un contratto nella lingua dei suoi avi e che l’uomo non capisce cosa contenga (lo sapremo dopo di che accordo si tratta). E qui ci fermiamo – siamo arrivati a meno di un terzo della durata del film – per lasciare immaginare allo spettatore le successive mosse letali del Conte alias Nosferatu, il vampiro: viaggio in veliero, arrivo a Wisborg con tanto di topi, peste, ecc. ecc.. Last but not least: morde le vittime sul petto e non al collo.

Ripercorrendo gli antecedenti filmici possiamo dire che per Murnau (e il suo sceneggiatore Henrik Galeen) Nosferatu, il non-morto, era il simbolo dell’irruzione violenta di un elemento irrazionale nel tessuto della realtà borghese Biedermeier di inizio Ottocento, un qualcosa capace di opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante una forza eversiva ed incontenibile. Come uno specchio diabolico e metafisico il vampiro, nel super capolavoro del cinema muto dell’era di Weimar, rifletteva l’immagine impietosa della crisi irreversibile in cui versava tutta la middle class europea consapevole, ormai, del fatto che la propria funzione storica si andava piano piano esaurendo. Non stupisce dunque che Werner Herzog, da sempre ossessionato dal lato oscuro e torbido della nuova borghesia del vecchio continente, sia stato a tal punto attratto da quelle immagini mitiche consegnate indelebilmente alla Storia del cinema, da sentire il bisogno di paragonarsi con esse per realizzarne una sorta di remake attualizzato al post 68. Ma superato il timore quasi reverenziale, alle soglie di un’idolatria che, in alcuni momenti, sfiorava le vette di un alto manierismo (alcune sequenze sono quasi identiche), di affrontare tale confronto, Herzog si è sforzato ad aprire alla vicenda un’ulteriore nuova dimensione. Nosferatu diventa, allora, quasi una rivelazione messianica e misteriosa, una figura arcana la cui immortalità si trasforma necessariamente nella condanna ad una solitudine senza fine. In un mondo di sentimenti mortali come i cuori che li nutrono, il vampiro assume (grazie anche alla camaleontica, straordinaria interpretazione di Klaus Kinski) la statura tragica di un uomo condannato a sopravvivere alla sua stessa esigenza d’amore. La tristezza nel Male ma anche le tentazioni del Sesso che la donna, una magnifica, eterea Isabelle Adjani provocava. E in questa sua carica di verità intensificata dal dolore e dal desiderio, il mostro finiva per far spalancare sotto ai nostri occhi delle visioni d’incubo e angoscia di fantastica potenza.

Lavorando, invece, con una certa qualche fedeltà, sull’adattamento letterario del romanzo di Bram Stoker – come poi da titolo del suo film – più che sugli adattamenti dei registi tedeschi, Coppola aveva privilegiato e sviluppato l’approfondimento sociale e psicologico della tarda società vittoriana inglese, con un rimarchevole impianto visivo che privilegiava, nelle sue intenzioni, soprattutto i costumi degli interpreti costituto da un cast di tutto rilievo (Gary Oldman, Winona Ryder, Keanu Reeves e Anthony Hopkins).
A questo punto che cosa ha aggiunto il buon Robert Eggers rispetto a quanto avevamo già visto? Poco o niente, o ad essere cattivelli solo il peggio del cinema horror tradizionale con possessioni e scene crude e cruente che servono a sostenere una sostanziale mancanza d’idee originali sul piano dell’interpretazione. Non ci aspettavamo un nuovo capitolo di grande aperture metafisiche sulla scia della filosofia classica tedesca ma almeno un qualche minimo tentativo di originalità nella resa del film – salvo quella di tirare per le lunghe (132 interminabili minuti) i problemi e le questioni tra i coprotagonisti a proposito della malattia e le possessioni di Ellen. Oppure portare alle estreme conseguenze l’attrazione erotica donna/mostro.
Scontato che il regista newyorkese partiva con un cast da serie b almeno rispetto a quello dei concorrenti (di Coppola abbiamo detto mentre Herzog schierava, oltre a Kinski e Adjani, un superbo Bruno Ganz), c’è anche da aggiungere che a parte una brava Lily-Rose Depp e il sempre efficace Willem Dafoe nella parte del saggio scienziato, tutto il resto della compagnia ha lavorato al minimo sindacale. Compreso (ma forse non è neanche colpa sua) lo stesso Bill Skarsgård a cui non viene mai concesso la possibilità di dar corpo al personaggio di Orlok/Nosferatu perché quasi sempre ripreso come una maschera orrida in primo piano o di sguincio (basta ricordare cosa fosse riuscito a rendere scenicamente Kinski con la sua corporeità e le sue unghie).

Consiglio finale per l’acquisto di un biglietto? Do per scontato che i cinefili, se non altro per curiosità, lo andranno a vedere e mi auguro caldamente che non si annoieranno a morte come è accaduto al sottoscritto. Di sicuro si può, forse anzi si deve apprezzare l’impianto visivo per la fotografia desaturata di Jarin Blaschke, certo non nuova ma comunque pregevole; detto ciò, poco altro mi viene in mente, di certo né una musica d’accompagnamento insopportabilmente convenzionale (altro che quella dei Popol Vuh di Herzog) né il finale inconcludente. E soprattutto l’assoluta mancanza di poesia. Non escludo, invece, che chi non conosca o abbia dimenticato i film di riferimento precedenti, possa godere questo Nosferatu come un horror mainstream in costume, ma ne dubito, anche perché il ritmo o il montaggio non è quello di opere del genere. In definitiva, quindi, si potrebbe concludere con un “né carne né pesce” ma si possono leggere, come si accennava, pareri diametralmente opposti a quanto qui ho scritto io, con parecchia delusione e irritazione nell’animo.
In sala dal 1 gennaio 2025
Nosferatu – Regia e sceneggiatura: Robert Eggers; fotografia: Jarin Blaschke; montaggio: Louise Ford; effetti speciali: Pavel Sagner, Angela Barson; musica: Robin Carolan; scenografia: Craig Lathrop; interpreti: Lily-Rose Depp, Bill Skarsgård, Aaron Taylor-Johnson, Nicholas Hoult, Willem Dafoe, Ralph Ineson, Emma Corrin, Simon McBurney, Paul A Maynard, Stacy Thunes; produzione: Jeff Robinov, John Graham, Robert Eggers, Chris Columbus, Eleanor Columbus per Studio 8, Maiden Voyage Pictures, Birch Hill Road Entertainment; origine: Usa, 2024; durata: 132 minuti; Distribuzione: Universal Pictures.