Occupied City di Steve McQueen

  • Voto
3.5

Una piazza, un teatro, un mercato, un angolo di strada, ma anche una cantina, un appartamento, ogni spazio di una città europea ha accumulato nel tempo strati di storia e memorie; scavando in queste ritroviamo per esteso non solo noi stessi, ma anche quello che non vorremmo essere stati e forse quello che non ci accorgiamo invece di tornare a essere. Come sembrerebbero confermare le ultime tendenze politiche europee. Le pietre d’inciampo, il progetto nato grazie all’impegno dell’artista tedesco Gunter Demnig, sono lì sui marciapiedi delle nostre città, davanti alle porte delle case, a ricordarci come il passato non deve finire nel dimenticatoio, ma debba servire da monito per il presente.

Da una riflessione simile sembra nascere Occupied City del regista londinese Steve McQueen (premiato con l’Oscar per il miglior film nel 2013 con 12 anni schiavo) e presentato a Cannes l’anno scorso. Il film è tratto dal libro-mappa Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945 della storica olandese Bianca Stigter (moglie di McQueen) e regista essa stessa del documentario Three Minutes: A Lengthening (2022 ) sulla vita in una cittadina polacca prima dell’Olocausto.

Pur non utilizzando nessun materiale d’archivio, il regista McQueen riesce a rievocare i tragici momenti storici, i fantasmi di un passato spesso dimenticato che, grazie alla voce narrante inglese, ferma e puntuale, volutamente distante e neutra, di Melanie Hyams, racconta di nascondigli, deportazioni, razzie, esecuzioni, suicidi, collaborazioni, ma anche di atti di resistenza e coraggio, avvenuti fra il 1940 e il 1945. È al sonoro che tocca passare in rassegna la cruda realtà delle statistiche, dei numeri e dei fatti documentati, i nomi delle vittime dell’occupazione: ebrei, sinti e rom, partigiani della resistenza, minoranze. Elenchi, liste, tragiche fatalità. E intanto vediamo scorrere sullo schermo le immagini di quegli stessi spazi, ottant’anni dopo, nel presente. Osserviamo la vita casalinga che scorre dietro le finestre, mentre quella sociale, collettiva, avviene per le strade, lungo i canali, nelle piazze dei mercati e nei parchi; vediamo il passare delle stagioni, il ritrovarsi per manifestare, celebrazioni ufficiali, la preghiera durante le ricorrenze religiose. È la vita che prosegue nei tanti microcosmi cittadini di Amsterdam durante i due anni di pandemia e sempre alla dovuta distanza. Una distanza mantenuta pure dalla mdp, che preferisce restare lontana dai suoi soggetti. Nonostante McQueen scelga il formato televisivo ‘a tutto schermo’ considerato desueto per il cinema e usato ormai da pochi, questo gli permette di ottenere un ritratto compatto della città, più adatto alla nostra vista.

Il monumentale progetto lungo più di quattro ore è, a differenza del libro organizzato per distretti e strade, un film che non cerca l’ordine, anzi tende a elencare casualmente strade e numeri civici, molti ancora esistenti, altri demoliti con il tempo. La mappa che ne scaturisce ci mostra luoghi oggi spesso diversi da allora, verrebbe da dire, svuotati della loro funzione, diventati innocui. Ma dietro le porte delle aule scolastiche dove i ragazzi fanno lezione oggi, si svolgevano le interrogazioni delle SS durante l’occupazione tedesca, e la piazza del mercato era il luogo dove dopo una razzia venivano portati gli ebrei, prima del trasporto in treno fino a Westerbork, il campo di concentramento olandese considerato la stazione intermedia, che portava poi spesso ad Auschwitz o a Sobibor in Polonia.

La lunghezza del film ci lascia il tempo per riflettere e permette alla Storia (con la S maiuscola) di aver luogo. Un tempo necessario allo spettatore per interiorizzare il momento filmico come un’esperienza del passato rivissuta nel presente. Ma ancora, proprio perché postula l’esistenza di un terzo tempo, quello necessario alla fruizione, Occupied City, non rientra nel genere del documentario, pur non essendo un film di finzione. La sua estetica ricorda l’esperimento News from Home (1976) di Chantal Akerman, dove suono e immagini corrono su diversi binari. Anche qui in Occupied City c’è un momento in cui le immagini seguono un loro corso, si staccano dal duro elenco del sonoro vocale e diventano poesia, seguono il flusso della musica. Come dicevamo, McQueen realizza con quest’opera anche un ritratto, una dedica alla città di Amsterdam. Un viaggio alla scoperta di una collettività vivace e solidale, proprio nel momento per questa più critico, in cui a causa della pandemia viene messa in discussione, dove proprio i luoghi d’incontro come negozi, teatri, musei sono dovuti rimanere chiusi. Occupied City è quindi anche una sinfonia cittadina, una composizione di suoni e immagini che va ad aggiungersi alla lista di film dedicati ad una città, come Berlino sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann.

Vale la pena seguire Steve McQueen nel viaggio per le strade di Amsterdam a cui ci invita a prender parte, perché, la storia non ce la possiamo lavar via di dosso, come fa il tram elettrico con lo sporco a fine film, ma si stratifica e a volte torna pure a ripetersi, basta solo distrarsi un po’.

Dall’11 ottobre  su Mubi.


Occupied CityRegia: Steve McQueen; sceneggiatura: tratto dal libro Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940–1945 di Bianca Stigter; fotografia: Lennert Hillege; montaggio: Xander Nijsten ; musiche: Oliver Coates; interpreti: Melanie Hyams; produzione: Lammas Park, Family Affair Films, Film4, A24, Regency Enterprises; origine: Gran Bretagna, Olanda, Stati Uniti 2023; durata: 266 minuti; distribuzione: Mubi.

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