Shoshana di Michael Winterbottom

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Un melodramma per raccontare l’impossibilità di una convivenza multiculturale agli albori della nascita dello Stato d’Israele: Michael Winterbottom, pur in un tono che privilegia a tratti l’asciutto action movie,  mantiene il filo costante lungo le due ore di durata sulla storia vera di Shoshana Borochov, una giornalista ebrea di origine ucraine, dilaniata tra amore e lotta armata nella Palestina degli anni ’30, con i venti vicinissimi di una guerra mondiale dettata fondamentalmente da ragioni antisemite; nella nuova terra destinata a diventare la casa del popolo ebraico la situazione è però altrettanto pericolosa, visto che l’Inghilterra fin dal 1920 ne ha fatto un suo protettorato per gestire i conflitti tra gli autoctoni arabi e gli immigrati ebrei, nell’avvio di una sanguinosa lotta che si  continua a protrarre fino alla contemporaneità della guerra a cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi. Rispetto ai cosiddetti terrorismi, il film di Winterbottom si sofferma più su quello ebraico e sull’escalation di attentati che spinsero l’esercito inglese a mettere in atto un discutibile modus operandi senza scrupoli nell’applicare sommarie condanne a morte e rappresaglie contro i ribelli. In questo contesto, il cuore di Shoshana è diviso a metà tra il senso di appartenenza al gruppo paramilitare di autodifesa ebraica Haganah e l’attrazione per Thomas Wilkin, un poliziotto chiamato ad indagare proprio su una serie di attentati bombaroli provocati in particolare da una figura controversa come quella di Avraham Stern che lasciò Haganah, per estremizzare la protesta anti britannica e affermare a costo della morte l’indipendenza del suo popolo.

Entrambi i giovani sono dunque schiacciati da un parte dal senso di colpa di tradire in qualche maniera la propria causa (quella più viscerale e identitaria di Shoshana contro la più formale e ragionata obbedienza very british di Thomas) e dall’altra spinti l’uno verso l’altra da un desiderio che ha a che fare proprio con la giovinezza: la storia ha infatti un’ambientazione prevalentemente estiva e luminosa in vitale contrasto con la sequenza reiterata di morti, esplosioni e cacce all’uomo come in un film pamphlet di Costa Gavras, con una ricostruzione cronachistica e puntuale che talvolta rischia di scivolare in una certa monotonia da un punto di vista del racconto e di ridursi in piattezza da quello delle immagini. Il contrappunto sono proprio le scene sentimentali  ed erotiche tra  la coppia di amanti, la dimensione privata di un desiderio anche carnale di bellezza, come sono bellissimi i due protagonisti, l’affascinante attrice russa Irina Starsenbaum che interpreta Shoshana (con una presenza che compensa abbastanza bene la sua non vastissima gamma espressiva) e il fin troppo bamboleggiante Douglas Booth nel ruolo di Thomas.

Si potrebbe dire che questa scelta maggiormente sottotono nelle performance attoriali voglia restituire uno svuotamento di enfasi  della parte più spettacolare ed entertainment di una storia che, andando a toccare dei nervi ancora cosi scoperti e sensibili, ha bisogno di mantenere un equilibrio e una misura (la voce narrante, altrettanto sobria e misurata anche nelle sfumature più desolate, appartiene alla stessa Shoshana). Winterbottom, un autore di cui forse negli ultimi anni si erano perse un po’ le tracce, ha d’altronde sempre cercato una forma di sintesi tra una messa in scena più costruita nei tempi e negli spazi e un tono dimesso, oseremmo dire quasi documentaristico nella visione anche di fatti che riguardano la storia passata recente. Benvenuti a Sarajevo (film del 1997, più di un’epoca cinematografica fa…) era, ad esempio, una sorta di quasi instant movie sul conflitto bosniaco raccontato attraverso il filtro parziale di un reportage televisivo, sempre sul margine tra fiction e realtà

E una questione ricorrente che appare tornare nel suo cinema, come nel distopico Codice 46  (2003) presentato a un Festival di Venezia di un bel po’ di anni addietro, è quella del contrasto tra il controllo del potere istituzionalizzato e la libertà delle pulsioni, con l’eros che assume una forte valenza trasgressiva, rivoluzionaria, audace. Corpi che provano a ribellarsi, a fuggire o ad amarsi, ma che rimangono chiusi, bloccati, inibiti fino all’esecuzione da parte di un regime ideologico che si manifesta sia esternamente sotto l’aspetto di uomini spesso in uniformi di segno opposto,  che internamente come individuali prigioni psicologiche ed emotive. La crisi di Shoshana è sintomatica di una lacerazione storica e culturale, nella quale la spontanea, naturale attrazione verso una possibilità di convivenza pacifica, vista la quantità di morti che si piangono in tutte le direzioni, è soppressa da un furore ideologico portato ai limiti del tollerabile e poi anche oltre dalla prevaricazione e del sopruso degli occupanti, dall’omicidio, che non è più solo una questione privata, di un amante, di un compagno o  di un marito ucciso, ma il segno di un’interminabile, estenuante resa dei conti che si allarga a macchia d’olio (come ci preannuncia il finale con la donna definitivamente trasformata in guerrigliera).

Certo le concessioni a una certa convenzionalità nella struttura narrativa non mancano, come il bilanciamento nei dubbi etici e sentimentali di Thomas contrapposti all’asettica spietatezza del poliziotto anti sommossa Morton (interpretato con ordinaria freddezza da Harry Melling), e con un’inaspettata concessione di scena madre nella quale Irina Starsenbaum da fondo ad un’esternazione di dolore forse incoerente con la corazza di orgoglio portata fino a quel momento dal suo personaggio. È pur vero che si tratta della scena successiva ad un climax, che non è il caso di rivelare, peraltro, prima di una tale e prolungata esplosione melodrammatica, con una secchezza spiazzante. Non tutto poi risulta a fuoco e approfondito, pur offrendo una complessa quantità di spunti interessanti: la figura del sionista estremista Stern, considerato oggi eroe nazionale in Israele, meritava forse una presenza più incisiva anche dal punto di vista dell’interpretazione, e talvolta il suo apparire non riesce ad andare più in là della tensione un po’ meccanica per far procedere i fatti. Il limite più grande forse è proprio la non risolta capacità di dare il giusto spazio sia alla dimensione a due che a quella corale (per cui in alcuni momenti, in particolare nella prima parte, ci si chiede perché è stato scelto il nome della protagonista come titolo del film intero, mentre andando avanti il suo sguardo assume sempre maggiore rilevanza).

Detto questo, il primo piano imperturbabile, coperto da una mitragliatrice che spara, di questa donna che in voce off annuncia la fine di una qualsiasi possibile convivenza pacifica tra ebrei e palestinesi, è un bel colpo al cuore sul come l’amore può trasformarsi in odio.

P.S. fondamentale vedere la versione originale in arabo, in ebraico e in inglese.

In sala dal 27 giugno 2024


Shoshana – Regia: Michael Winterbottom; sceneggiatura: Michael Winterbottom, Laurence Coriat, Paul Viragh; fotografia: Giles Nuttgens; montaggio: Marc Richardson; musiche: David Holmes; interpreti: Irina Starsenbaum, Harry Melling, Douglas Booth, Aury Alby, Ian Hart, Liudmyla Vasylieva, Daniel Donskoy; produzione: Massimo Di Rocco, Josh Hyams, Luigi Napoleone, Melissa Parmenter, Michael Winterbottom; origine: GB/Italia, 2023; durata: 119 minuti; distribuzione: Vision Distribuition.

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