Mother/Android di Mattson Tomlin

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Georgia aspetta un bambino. È una gioiosa notte di metà dicembre: i colori sfavillanti dell’avvento saturano le strade ghiacciate, fra le stanze si spande un piacevole aroma di menta e cannella. Una serenità sonnacchiosa e a tratti inquieta regna sulla cittadina tutta vischio e lucette, nel cuore del placido Massachusetts. Ma Georgia aspetta un bambino, e qualcosa, da qualche parte nella sua patinata esistenza, si spezza. Accanto a lei, il padre: un ragazzo magro, dallo sguardo vivace e dal volto rassicurante, troppo adulto per le Converse giallo canarino sfoggiate (non senza un certo orgoglio) al di sotto dei jeans, troppo giovane per giocare all’eroe senza macchia e senza paura.

Questo è l’incipit di Mother/Android, esordio dell’appena trentenne Mattson Tomlin, qui approdato alla mitica sedia pieghevole dopo una breve avventura da sceneggiatore. Se il titolo che il lungometraggio reca in copertina già non ci preparasse al peggio, potremmo quasi scambiare l’opera per un variopinto teen movie: lui , Sam (Algee Smith, perfettamente a suo agio nel ruolo dell’adolescente fuori tempo massimo) è uno spirito libero dall’animo gentile ma, per ragioni a noi ignote, cresciuto troppo in fretta. Lei, Georgia (un’incantevole Chloë Grace Moretz) è una studentessa nervosa e inflessibile, eppure tanto umorale quanto insicura. Intorno fluttua una vita dall’aspetto normale che, come ogni vita dall’aspetto normale, nasconde sfumature tetre: i due protagonisti, infatti, si muovono all’interno di una cornice storica priva di coordinate specifiche, ma facilmente inscrivibile in un futuro – ahimè – alquanto prossimo.

Una strana sentenza ci scuote dal bonario dramma liceale per catapultarci fra i rottami di una distopia meno ipotetica di quanto non sembri: ai tradizionali auguri di buone feste, il maggiordomo di famiglia risponde con un allegro “buon Halloween anche a lei, Signore”. Sembra una battuta, invece è il classico bug nel Matrix. Il nostro pinguino in camicia e panciotto ha uno strano sguardo blu, ci chiediamo se sia il caso di segnalarlo al buon Algee Smith – alias Sam, che pare non dar troppo peso alla bizzarra interazione. Alla seconda inquadratura, lo scenario si chiarifica e finalmente iniziamo a capire: nel domani messo in scena da Tomlin, gli uomini sono riusciti a trasformare Alexa in una serie di androidi in carne e acciaio. A questo punto vi poniamo il più retorico degli interrogativi: cosa succederebbe se le amabili IA che spengono e accendono le luci del vostro soggiorno venissero dotate di una coscienza propria?

Riusciamo appena a strizzare l’occhio in direzione dell’iconica trilogia firmata dalle sorelle Wachowski: l’attimo dopo, un misterioso glitch irrompe sulla ribalta e trasforma i robot in efferati assassini. Per fronteggiarli ci vorrebbe un intero esercito d’impassibili Blade Runners. Ma il regista statunitense ce ne priva, e così rimaniamo impaludati fino alle ginocchia in un vicolo cieco dalle pareti insormontabili. Georgia e Sam fuggono, abbandonando il passato inurbato per insinuarsi nell’avvenire e ritornare, paradossalmente, in un’era pretecnologica dai contorni quasi primordiali.

A nove mesi dall’infausta Vigilia, i due sono ancora accampati nei pressi di Boston, ultimo pinnacolo di un’umanità ormai in brandelli. Dalla metropoli-fortino, si narra, partono navi dirette in Corea su cui salgono le ultime famiglie superstiti. Ma raggiungere l’agognato porto si rivela un’impresa titanica e, in tali casi, la speranza è un pericoloso specchietto per le allodole: nel corso del loro peregrinare nel bel mezzo di una No Man’s Land stillante sangue ed efferatezze, l’impavida coppietta s’imbatterà in Arthur (Raúl Castillo), un misterioso informatico di cui lo spettatore, dall’alto del suo scranno, mai si sarebbe fidato. Ma Georgia e Sam sono soli e abbandonati, spauriti come cerbiatti nella foresta, avviliti come Adamo ed Eva alla cacciata dall’Eden. Per avvicinarli, basterebbe un po’ di sana compassione, magari condita da un eccentrico piano di fuga. Touché: non occorre un veggente per immaginare come andrà a finire.

Come spesso accade nelle apocalissi, i superstiti non brillano per sagacia: lo sappiamo noi, lo sanno loro, gli automi, il futuro sotto forma di algoritmo, la civiltà che distrugge la civiltà per il bene della civiltà. La caligine fatalista e nevrastenica che spira da questa trappola per topi è la stessa pensata per il ben più complesso Ex Machina (2015), l’incubo sci-fi che valse al suo autore Alex Garland l’ambita statuetta degli Oscar.

Perfino la morale rimane identica, ma Mattson Tomlin la incide su pellicola con il pugno deciso di un fanciullo: la forza dell’uomo risiede nell’innata capacità di provare empatia verso il prossimo. Le macchine, invece, non conoscono emozioni, e sono disposte a sacrificare sé stesse e gli altri nel raggiungimento di uno scopo comune. E poi ci sono gli Adamo ed Eva, intricati congegni nei quali ragione e sentimento coincidono, dispositivi geneticamente programmati per sopravvivere al di là del Paradiso Terrestre. Per quanto amaro o stucchevole possa rivelarsi il gran finale, gli ultimi ad abbandonare il palcoscenico saranno sempre loro: è la lezione di Matrix. Ed è la lezione di Blade Runner.

Su Netflix dal 7 gennaio 2022


Cast & Credits

Mother/Android  – Regia: Mattson Tomlin; sceneggiatura: Mattson Tomlin; fotografia: Patrick Scola; montaggio: Andrew Groves; interpreti: Chloë Grace Moretz (Georgia), Algee Smith (Sam), Raúl Castillo (Arthur); produzione: 6th & Idaho Productions, Miramax; origine: USA 2021; durata: 110’.

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