A dire il vero di Nicole Holofcener

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Nicole Holofcener è una regista e sceneggiatrice  newyorkese che in circa trent’anni di carriera ha raccontato, con una serie di opere calibrate e centellinate (neanche una decina di titoli dal 1996), una media alta borghesia, spesso intellettuale e decisamente da una prospettiva femminile, nei toni di una variazione più tenera e minimalista rispetto alle esacerbate e istrioniche personalità  nevrotiche di Woody Allen (al quale rimanda non solo per una modalità di racconto e  per una descrizione di ambiti e di caratteri, ma anche per un elemento assolutamente biografico: il patrigno è infatti Charles R. Joffe, produttore di molti film di Allen, su cui set Nicole è cresciuta).

Quest’ultimo A dire il vero (solita, mistificante traduzione italiana che annacqua il più esplicito e intimo You Hurt My feeling, ovverosia “mi ferisci”) rientra, senza infamia e senza lode , in un percorso autoriale che non ha mai, forse volutamente, avuto dei picchi e degli exploit , che è rimasto sempre un po’ ai margini e sottotraccia, nonostante alcuni titoli che possedevano un ritmo e un’ inedita insolenza più avvincenti ed eccitanti, come il delizioso Non dico altro (2013), con il compianto James Gandolfini nel ruolo di decostruito maschio alpha alle prese con la sua sensibilità.
Il rapporto tra sessi e generazioni è presente anche qui, con due coppie –  due sorelle e i rispetti mariti entrambi più giovani-  e un figlio,  alla prese con il peso delle aspettative, le frustrazioni, le piccole mistificazioni per far reggere il tessuto delle relazioni famigliari. Al centro di questo microsistema c’è sempre una figura femminile colta nella sua realistica identità di ordinary woman, ben incarnata dalla brava Julia Louis Dreyfuss, interprete molto nota in USA di raffinate sitcom (Seinfeld, The Old Adventure of the New Christine): si chiama Beth, ha scritto un romanzo autobiografico di successo (forse) e ora insegna scrittura creativa , oltre ad aver appena concluso la sua opera seconda di finzione. Il marito è uno psicologo non proprio brillante e realizzato – nella prima scena lo vediamo alla prese con una coppia in crisi che lo accusa di non saperla aiutare- , mentre il figlio, implicitamente schiacciato dalle ambizioni che la madre proietta su di lui, ritarda la stesura del suo esordio da scrittore e preferisce fare il commesso in un negozio che vende cannabis. La sorella, dal canto suo, è un’arredatrice per appartamenti di lusso disgustata dall’inutilità del suo lavoro, sposata ad un attore sulla soglia del fallimento professionale.
Questo composito quadretto di inespresse e tacite insoddisfazioni , tutte proiettate sulla sfera lavorativa e su quanto questa incide nelle relazioni, esplode, diciamo così, quando Beth ascolta casualmente una conversazione tra marito e cognato in cui il primo dice al secondo di non aver apprezzo per nulla le innumerevoli bozze del secondo romanzo della moglie, gettando la donna in uno sconforto che a catena include tutti gli altri personaggi rispetto a una mancanza di schiettezza e di verità, di evitamento e di confusione tra la compiacenza e l’incoraggiamento, la bugia a fin di bene e l’accondiscendenza passivo-aggressiva. Una tesi esposta in maniera abbastanza eloquente ma anche molto tiepida e programmatica, con l’ordine  delle cose che, senza un accenno di amarezza, torna gioiosamente, sempre con misura e pacatezza, ad affermarsi (incluso un imbarazzante quadretto familiare al ristorante che risolve- puff!- tutti i conflitti e le ferite narcisistiche dell’essere genitori e dell’essere figli).

Purtroppo è proprio l’anemia di fondo che investe un po’ tutti i personaggi a lasciare un sentimento di sostanziale indifferenza, al massimo di sbiadita simpatia, verso il film della Holofcener. Non c’è mai qualcosa di sorprendente, un guizzo, una sferzata…tutto è contenuto dentro la non scalfita cornice di un New York da sitcom appunto,  dove si filma moltissimo il parlare con la speranza di accedere, quasi fenomenologicamente, a una brillantezza che non arriva mai, perché troppo preoccupata di far capire qual è il punto. Anche le scelte registiche vanno tutte nella direzione della costruzione di un formalismo spaziale di decor e abitazioni, bistrot  e ristoranti che non diventano mai , come nel miglior Allen, la manifestazione tangibile e attraversabile di un vuoto esistenziale o di un’inquietudine. Forse le scene migliori sono proprio quelle delle psicologo così passivizzato non solo da non intervenire ma anche dal distrarsi rispetto ai problemi che gli portano i suoi pazienti i quali, forse per provocarne una reazione, lo insultano anche facendosi intenzionalmente sentire e arrivando a citarlo per danni. Questa visione cosi desolante e impotente della psicoterapia, che in qualche maniera potremmo definire post alleniana come se fossero passati gli ormai famigerati  quindici anni più uno che l’Alvyn Singer di Io e Annie  si dava prima di andare a Lourdes, è riassunta forse nell’unica immagine che veramente rimane, quella di un cestino pieno di fogli accartocciati che il protagonista si rifiuta di svuotare (forse un monito ai suo apparentemente quasi compiaciuti fallimenti terapeutici).

Fare un cinema di parola è sicuramente qualcosa di rischioso e insidioso, se la parola non viene innervata di vita , di esperienza e di corpo: A dire il vero resta cosi intrappolato nella sua tesi dimostrativa – la verità, anche la più sgradevole, non solo ha sempre un potere risanatore ma se circoscritta non mette in discussione l’intera struttura su cui si regge un rapporto – ma manca il segno di un microcosmo descritto e non sentito, compreso ma non attraversato. Prevale una distanza, magari per eccesso di pudore e delicatezza, un’azione trattenuta rispetto a un racconto che peraltro si regge sulla procedura del disvelamento, e sul superamento delle convinzioni e delle inibizioni, anche linguistiche, che portano a rapportarsi all’altro in una maniera formale, apparente, rituale, riprodotto nella sequenza in cui Beth e il marito si fanno dei regali che detestano  per il loro anniversario, prima e dopo esserselo rilevato.

Ma anche il potenziale aspetto conflittuale di una tale rivelazione viene normalizzato e introdotto in un mood di ritrovata complicità, con ogni equivoco e fraintendimento che diventa aneddoto, battuta, un nuovo rito. Certo, anche la famiglia proletaria, disfunzionale e rabbiosa di Segreti e bugie (1996) di Mike Leigh quando esplodeva una verità ben più sconvolgente e traumatica – la riapparizione di una maternità rifiutata e rimossa- si ricompattava intorno alle ceneri del passato, in un moto di sopravvivenza a tutto quel dolore chiaramente . Non si chiede certo questo al film della Holofcener, che non ha quel tono e quei temi,  ma il disequilibrio compiaciuto verso uno spirito di autoconservazione, questo sì veramente borghese, un po’ irrita. Sarebbe stato bello se Beth avesse fatto come Ouissa , la mercante d’arte in crisi esistenziale di Sei gradi di separazione (1993) di Fred Schepisi – altro film newyorkese sugli inganni e le dissimulazioni dell’ high society – che invece di tornare al talamo nuziale, se ne fugge a piedi scalzi per i quartieri della City, immaginando di toccare con un dito il soffitto della Cappella Sistina.

In sala dall’8 febbraio 2024


You hurt my feelings   – Regia e sceneggiatura: Nicole Holofcener; fotografia: Jeffrey Walron; montaggio: Alisa Lepselter; musica: Michael Andrews ; interpreti: Julia Louise-Dreyfuss, Tobias Menzies, Michaela Watkins, Arian Moayed,Owen Teague, Jeannie Berlin, Amber Tamblyn, David Cross ; produzione: FilmNation Entertainment, Likely Story ; origine: USA, 2023; durata: 93 minuti; distribuzione: VERTICE 360.

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