Almodóvar e la Storia

La bella notizia è che giunto all’età di 72 anni e al 23esimo film Pedro Almodóvar decide finalmente di sporcarsi le mani con la Storia del proprio paese. Non che non ne avesse mai parlato. Ricordiamo, ad esempio, l’inizio di Carne tremula, ma se c’erano stati riferimenti al passato essi erano tutti relegati, diciamo così, su aspetti sovrastrutturali e indiretti (il sistema educativo, la centralità della famiglia, le leggi morali e religiose).

La sensazione che al di là, possiamo affermarlo, di un indubbio scarso interesse, quando non rimozione della Storia spagnola, Almodóvar sia rimasto, almeno dalla sua consacrazione internazionale in avanti, ovvero dal successo di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), prigioniero un po’ del suo personaggio pubblico, dei suoi temi dominanti, del suo stile. Di fatto Almodóvar, negli ultimi trent’anni, non ha fatto altro che variare un pattern assolutamente inconfondibile, un pattern comprendente, almeno, i seguenti elementi, come direbbe Jep Gambardella, in ordine sparso: l’esplicita tematizzazione di un ampio spettro di identità sessuali, con una particolare predilezione per l’omosessualità e il travestitismo, l’attenzione alle forme di devianza e dipendenza (la droga avanti a tutte), l’indagine della condizione femminile, raccontata con rara sensibilità e tramite il continuo ricorso al genere del melodramma, il teatro e il cinema (con una fitta serie di intertesti di riferimento),  l’attenzione all’architettura urbana, all’arredamento d’interni, alla moda, un originalissimo uso del colore. Da un certo momento in avanti a tutto questo è venuto ad aggiungersi anche uno specifico interesse per il contrasto fra città e campagna, fra la città moderna anzi ipermoderna e la campagna retrograda, cui – sempre negli ultimi tempi – mi pare essersi aggiunto un marcato intento autobiografico o quanto meno autofictional (da La mala educación a Dolor y gloria) – un pattern perfettamente rappresentato, fra le altre cose, da una serie di attori ma soprattutto attrici feticcio che devono a lui e alla sua straordinaria capacità di esaltarne bravura e bellezza la loro notorietà anche al di fuori del cinema spagnolo, il caso di Penélope Cruz risulta certamente il più vistoso.

Ebbene a fronte di tutto ciò e dello spiccato collocamento nella contemporaneità (Almodóvar regista del post-franchismo, regista della movida madrilena), il passato ha sempre svolto, nell’opera del regista manchego, un ruolo secondario, ovvero, come già si diceva, il passato era interessante solo in un’ottica squisitamente individuale, come itinerario privato di formazione dei personaggi. E dunque il pur tardivo approdo alle questioni, a distanza di quasi novant’anni, tutto altro che risolte o elaborate, legate alla memoria nazionale, non si può che salutare con plauso. Chi, se non il più importante regista spagnolo, possiede il capitale simbolico per decretare l’attualità e la centralità di quel passato?

Su quanto affermato fin qui occorre tuttavia, per dovere filologico, inserire un importantissimo excursus. L’excursus riguarda uno splendido documentario di coproduzione americana e spagnola risalente al 2018 e presentato nella sezione “Panorama” alla Berlinale di quell’anno. I registi, una coppia, erano Almudena Carracedo, Robert Bahar e il film s’intitolava The Silence of Others (https://www.closeup-archivio.it/the-silence-of-others), un documentario che trattava in modo ricco e articolato una serie di questioni legate alla memoria storica o per meglio dire al cosiddetto “pacto del olvido”, una legge fortemente voluta dal re Juan Carlos, che di fatto dichiarava non punibili tutti i crimini compiuti durante il regime franchista. Fra i molti e vari aspetti trattati nell’eccellente documentario vi era anche quello riguardante la sistematica riesumazione dei cadaveri di parenti trucidati dalle truppe falangiste e dagli assassini ammucchiati in fosse comuni al fine di individuare, attraverso l’esame del DNA, l’identità garantendo loro una seppur tardiva onorevole sepoltura. Ebbene, il produttore di quel documentario rispondeva al nome di Pedro Almodóvar che – non è azzardato affermarlo – da quel film potrebbe aver sviluppato una nuova sensibilità per una serie di questioni fin qui non esattamente in cima alla sua agenda.

L’arringa a favore del recupero di una memoria storica nazionale apre e chiude Madres paralelas, va detto tuttavia che per larghe parti del film lo spettatore finisce purtroppo per dimenticare il tema forte e innovativo di questo film. È solo l’improvvisa telefonata di Arturo nell’ultimo quarto del film, il quale comunica a Janis che il comitato di cui lui è membro ha acconsentito a finanziare gli scavi della fossa comune, che riattualizza il tema che era stato al centro delle primissime sequenze del film e che aveva messo in moto la storia di passione e di amore fra lui e lei. Dopodiché la vicenda largamente già vista prosegue e, almeno a nostro avviso, si arena nelle sacche e nelle sacche di un almodovarismo manierista in cui tutto o quasi tutto ciò che abbiamo elencato all’inizio si ritrova con un altissimo margine di prevedibilità: lo scambio in culla si capisce subito, la “deriva” lesbica si intuisce altrettanto presto etc etc. In comune le due parti di cui il film si compone hanno solamente il DNA e il tardivo approdo alla verità. Resta l’auspicio che, per i film che verranno, Almodóvar trovi più coraggio, prenda distanza dalla sua maniera e provi più ad affondare nella memoria, la sensazione è che ci sia ancora molto molto da fare.

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