American Fiction di Cord Jefferson (Oscar per la migliore sceneggiatura non originale)

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La necessità che il cinema americano ha di contenere qualsiasi forma di racconto –  sia le derive critiche della provocazione paradossale che gli approdi di una visione più conservatrice e rassicurante – trova in American Fiction, opera prima di regia e sceneggiatura per il produttore e autore televisivo Cord Jefferson, quella rappresentazione calibrata, media, studiata accolta con generosità dalla comunità hollywoodiana: 5 nomination ai prossimi, imminenti Oscar in un’ annata particolarmente competitiva, incluse candidature chiave per film, attore e sceneggiatura non originale, con ottime probabilità di vincere nell’ultima categoria.

Si tratta infatti dell’adattamento del romanzo Erasure, pubblicato nel 2001 dallo scrittore afroamericano Percival Everett, dove, in un alternarsi di tragedia e commedia, viene messa in scena la vita di Thelonious “Monk” Ellison, un insegnate di letteratura inglese in crisi esistenziale e creativa (anche lui, come Everett, è uno scrittore in quello che è probabilmente un velato ritratto autobiografico) di fronte all’upper class intellettuale ed accademica losangelina. Stritolato tra la nuove suscettibili sensibilità del politicamente corretto, con una sottolineatura più sincronica alla contemporaneità di questi tempi che all’epoca in cui il romanzo è stato scritto, e le pressioni ed esigenze di un mercato letterario che continua a volere una narrazione convenzionale dei neri, come protagonisti di storie di emarginazione, degrado e violenza da ghetto life, Monk scrive di getto, come reazione rabbiosa e frustrata per il mancato riconoscimento della sua raffinata cultura classica e mitologica, un romanzo che chiama My Pafology; fin dal titolo una storpiatura slang (pafology per pathology) , che corrisponde alla descrizione intenzionale e caricaturale di un microcosmo black popolato da piccoli gangsters maschi esasperati nei modi e nel linguaggio, e colti in situazioni al confine tra l’adrenalinico action movie e l’enfatica scena madre. Una logica che segue i modelli di comportamento imposti nell’immaginario collettivo dalla fiction americana appunto , con un riferimento polemico più nei confronti del cinema, della musica e del videoclip, che della letteratura stessa, ridotta quasi ad un’appendice o, meglio, ad un prologo verso l’inevitabile adattamento cinematografico e seriale.

Ma i presupposti critici e polemici di Monk vengono contraddetti da una struttura economica e sociale rabbiosamente avida dietro le parole rassicuranti e gli ottusi, gaudenti stupori dei manager total white della casa editrice a cui il suo agente si rivolge per provare a vendere quel libro “joke”. Il  quieto intellettuale sarà così costretto a recitare, sotto pseudonimo, la parte dell’autore ignoto e latitante, che ha messo in parole autentiche e dirette la realtà sperimentata in prima persona di un uomo di colore sulla strada della criminalità e del pericolo. Se il teorema che Cord Jefferson vuole dimostrare è tanto chiaro quanto sconcertante nella sua linearità- l’egemonia culturale ingloba uno specifico e limitato aspetto di una comunità e ne fa il tratto identitario esclusivo e dominante con il quale quella stessa comunità continua ad essere rappresentata e raccontata- il film non si limita, o non vorrebbe limitarsi, ad una satira del malcostume dell’editoria sottomessa alle regole dell’industria dell’entertainment prodotto e consumato dall’alta borghesia bianca , con la complicità opportunistica di quella nera alla ricerca di un’ equivoca forma di riconoscimento e di riscatto. Un’aspirazione, anche legittima, soppiantata dalla narcisistica e individualistica voglia di successo.

Una buona parte delle vicissitudini di Monk riguardano la sfera privata, in particolare quella familiare, con una serie di lutti e disgrazie che bilanciano un po’ programmaticamente il tono grottesco e toccano le cose importanti e “vere” della vita: la morte, la malattia, l’ amore, l’ identità profonda non schermata da un personaggio, dove anche la costante espressione da intellettuale disincantato e amareggiato di Monk appare come una maschera interscambiabile, anche quando deve far finta di essere il criminale latitante convertito allo scrittura e autore di un improvviso best seller.

Il problema è che questo processo di rivelazione che permette al protagonista di trasformarsi , in una modalità comunque illusoria, da ingranaggio prima involontario e poi complice di un certo meccanismo di mistificazione in  indignato e ingegnoso sabotatore dell’ipocrita apoteosi mediatica, è attraversato da un moralismo familiarista aggiornato a tutte le sensibilità. Basti pensare al personaggio del fratello di Monk, che scopre e dichiara la propria omosessualità come fosse un altro “joke”, tra una morte improvvisa e una malattia degenerativa, con tanto di codazzo di giovani amanti al seguito in costume da bagno e intenti a preparare cocktail.

A dare il beneficio del dubbio di una raffinatezza di scrittura, e anche per via dell’ innesto, un po’ tardivo e affrettato a dire il vero, di un punto di vista metanarrativo all’ interno della storia, viene da pensare che Jefferson abbia voluto produrre il contro-immaginario su una comunità vista da una sola prospettiva; e per farlo ripropone specularmente tutta una costellazione di dinamiche e di conflitti famigliari piuttosto convenzionali, da drama series in prima serata, black o white che sia. Non è dunque un caso, restando in questo gioco di rimandi fiction, che il fratello gay sia interpretato da Sterling K.Brown, tra i protagonisti dell’ acclamata serie This is us , e anche lì nel ruolo di un’altra paria, il figlio nero adottato da una famiglia della middle class bianca.

Noi siamo voi quindi, con gli stessi problemi quotidiani e comuni che non hanno a che fare solo con sparatorie, gravidanze adolescenziali e assistenti sociali. Ma per poterlo rendere plausibile occorre essere inquadrati in un’ altra funzione riconoscibile e fruibile dallo spettatore di quest’ era di sovrapproduzione di sensi e segni audiovisivi, in cui lo stereotipo si riflette nello zelante eccesso di ritrosia, di attenzione, di azzeramento di ogni differenza in nome di una vacuità e di un’ evanescenza che per non offendere, non tocca più nessuno, non crea movimento; fuor da metafora anglofona alcuna e-motion.

La sensazione è che Jefferson non spinga fino in fondo nella direzione di questa disamina lucida e tagliente e che si faccia un po’ appiattire su un informe ed incolore cruccio- a che punto e fino a quanto e’ possibile tradire se stessi?- confidando un po’ troppo sulla performance di un attore comunque bravo come Jeffrey Wright, imbrigliato in un mood monocorde e a tratti spento( forse con la virtuosa intenzione di lavorare in sottrazione e misura).

Rimane quel noi/voi  interrazziale e interclassista come  suggestione, che in fatto di ribaltamento di pregiudizi e stereotipi ha avuto un’ immagine,  recentemente, di ben altro impatto visivo e drammaturgico: la maschera/volto di Lupita Nyong’o in Us (2019) di Jordan Peele che si rispecchia in quella del suo Doppelgänger maledetto ed emarginato, emerso dalla viscere delle terra. Un modo di integrare il negativo e il problematico senza celare la smorfia e il ghigno dietro uno sforzato sorriso apparentemente sardonico.

Su Prime video 


American Fiction – Regia e sceneggiatura: Cord Jefferson; fotografia: Cristina Dunlap; montaggio: Hilda Rasula; musica: Laura Karpman; interpreti: Jeffrey Wright, Sterling K.Brown, Tracee Ellis Ross, Erika Alexander, Leslie Uggams, Issa Rae, Adam Brody, Keith David; produzione: Orion Pictures, MRC Film, T-Street Productions, 3 Arts Entertainment; origine: Usa, 2023; durata: 117 minuti; distribuzione: Prime Video.

 

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