Black Tea di Abderrahmane Sissako (Festival di Berlino – Concorso)

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Si sa, noi tutti essere umani siamo dotati di sensibilità (ovviamente qui non scomoderemo Kant per renderne ragione) e da essa ne siamo condizionati. Forse le donne rispetto agli effetti della sensibilità sul nostro vivere quotidiano sono più consequenziali degli uomini. Oppure basta appena semplicemente affermare che nei loro confronti provano meno soggezione, meno paura ad affrontarli e ne accettano fino in fondo e sin da subito le inesorabili prospettive. Così infatti è per Aya (Nina Mélo) che all’altare sente come non mai che l’uomo che sta per sposare con lei non è felice.

Così inizia Black Tea, quest’ultima fatica di Abderrahmane Sissako (stimatissimo regista mauritano, si pensi ai suoi molto belli Heremakono, 2002 e Timbuktu, 2014), e si potrebbe anche dire la fine. Sì, perché l’opera ci sembra essere concentrata tutta in quelle prime scene della risposta negativa di Aya. Ma non senso puro della negazione, il che significa che c’è sempre il suo opposto, cioè la dimensione dell’affermazione. Ovvero, che ciò che si disconosce di conseguenza assicura la possibilità necessaria di un contrario positivo. Non è qui che sta che l’essenza del “no” di Aya. Per lei è un sentimento (come forse dovrebbe essere sempre in caso di scelta per una vita in comune). È un rifiuto di un modo di vivere insieme, è un non accettare le condizioni che già in premessa mostrano a pieno il fallimento a venire. È come se lo vedesse nei suoi minimi particolari Aya lì di fronte al sacerdote che le chiede la fatidica domanda. Sembra che nei suoi occhi scorra il film della sua non-vita con quell’uomo che sta lì accanto a lei dopo aver pronunciato il suo “sì” (non a caso poco spontaneo e molto svogliato). E tutto questo non è certo senza dramma, senza sofferenza. Ma non c’è via d’uscita se si vuole essere non tanto fedeli a se stessi in termini di esseri singoli e privati, bensì quanto rispettosi di ciò che vuol dire essere felici, dello scegliersi liberamente. Infatti Aya decide di non sposare quell’uomo perché dentro di sé avverte prima di tutto che è lui che non è felice a stare con lei. Provato ciò, Aya non può che andare via, verso un altrove dove immagina di poter ripartire per essere nuovamente. E lo fa coscientemente, con una profonda consapevolezza che le viene direttamente dal cuore. Di colpo, ritroviamo Aya che con le sue lente ed eleganti movenze si aggira per un mercato-suk dove si parla un’altra lingua. Infatti scopriamo che adesso lei vive in Cina, precisamente nella popolosissima città di Canton. Sembra la bellezza fatta persona. Mentre cammina per il mercato, la sua fierezza, la sua fermezza e la sua dignità illuminano tutte a unisono, componendo un mosaico d’umanità speciale, le strette strade che percorre come le persone che incontra. I suoi sguardi, i suoi atteggiamenti, il suo modo di parlare con gli altri, la sua andatura espandono cura e attenzione affettiva a tutto ciò che intorno la circonda: suoi simili come mondo naturale e animale. Si fa apprezzare anche il suo semplice modo di vedere, così discreto ma attratto, mentre osserva dal balcone di casa sua, ogni tanto e per caso, la vita quotidiana di una giovane coppia, lei in dolce attesa e lui che si occupa delle faccende domestiche. Magari chissà, queste scene la fanno immaginare un giorno felice, mentre sorseggia senza fretta il suo tè.

L’incontro con Cai (Chang Han) è subito fatale per lei. Cai è un grande conoscitore e colto commerciante di tè, non solo, ma sa che berlo può essere un’esperienza vivente e allo stesso tempo, se si è interessati veramente a viverla fino in fondo, si viene a scoprire l’atmosfera intensa che diffonde. Cai per Aya è essere rapita. Ogni volta che si incontrano per lei è una festa interiore che però sa bene trattenere in quei suoi vestiti sontuosi e perfettamente adatti alla sua persona. Trattenere nel senso proprio della raffinatezza però che lei incarna. Eppure, entrambi (come tutti noi) abbiamo un passato alle spalle che non ci consente di considerarlo indifferentemente. Il passato ritorna almeno due volte (per parafrasare un grande titolo di un vecchio film) e anche per loro non fa sconti di sorta. Tutto sembra perfetto, funzionare. Quanto abbiamo ammirato quelle scene tra interni ed esterni, girate durante i loro incontri a cena in un locale dove la discrezione per i clienti è il primo comandamento, garantita non tanto per nascondersi chissà da chi o da che cosa, ma per concedere a due intimità la più consona e naturale situazione per dirsi liberamente. Anche quelle di loro due insieme mentre Cai le mostra come preparare opportunamente gli infusi oppure quelle dove si ritrovano nell’immensità verde di una piantagione della cosiddetta Camellia sinensis (dalla cui foglie si ricava il tè).

Ecco: Black Tea è un invito stretto ai sensi, in particolare all’olfatto e al gusto. Al piacere elevato ed esaltato attraverso i sensi. Ma, tornando la storia di Aya e Cia, c’è il passato appunto che incalza e che pretende di essere il protagonista assoluto. Ci riuscirà? Lasciamo il finale tutto da vedere. Certo è che di Aya non ci dimenticheremo mai più. Uno dei pochi buoni film dalla Berlinale 2024!


Black Tea  – Regia: Abderrahmane Sissako; sceneggiatura: Kessen Fatoumata Tall, Abderrahmane Sissako; fotografia: Aymerick Pilarski; montaggio: Nadia Ben Rachid; musica: Armand Amar; scenografia: Véronique Sacrez; costumi: Stacey Berman; interpreti: Nina Mélo (Aya), Chang Han (Cai), Wu Ke-Xi (Ying), Michael Chang (Li-Ben); produzione: David Gauquié, Julien Derys, Denis Freyd, Kessen Fatoumata Tall, Jean-Luc Ormières, Charles S. Cohen per Cinéfrance Studios, Archipel 35, Dune Vision, Nouakchott; origine: Francia/ Mauritania/ Lussemburgo/ Taiwan/ Costa d’Avorio,  2024; durata: 111 minuti.

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