Sono passate due settimane e tutto è rimasto com’era. Si parla di calcio, del campionato italiano, della Juventus, l’inseguitrice che potrebbe arrendersi dopo nove titoli consecutivi, dell’Inter, la contender più accreditata a interrompere la striscia vincente dei torinesi, e del Milan, la fuggitiva che un po’ a sorpresa si trova a fare corsa di testa. Si diceva che nulla è cambiato. In effetti, la Juventus aveva, nello spazio di quindici giorni, i due confronti diretti con Milan e Inter (con la distrazione del Sassuolo nel mezzo) e ne è uscita con una vittoria (con asterisco, per le condizioni precarie dei giocatori rossoneri) e una sconfitta (pesante per il divario di gioco e intensità a favore dei nerazzurri), rimanendo perciò in quella specie di limbo tra la resa e il riscatto (grazie anche alla sorprendente sconfitta dell’Inter con la Sampdoria).
Fine di un’egemonia? Forse, ma solo se ci si limita a considerare la possibilità che la squadra allenata da Andrea Pirlo non ottenga il decimo scudetto consecutivo. Perché osservando i possibili eredi, si può tranquillamente affermare che l’egemonia sia destinata a proseguire. Ancora una volta, ammesso che Napoli, Roma e Lazio siano d’accordo, il titolo pare confinato a un discorso a tre, al triumvirato che negli ultimi vent’anni si è preso tutto. Dunque, ampliando l’orizzonte da due settimane a vent’anni, si può tranquillamente dire che niente sia veramente cambiato.
Un fenomeno, quello dell’egemonia sportiva, che non riguarda solo l’Italia ma l’Europa in generale. Considerando l’andamento dei campionati più importanti (Italia, Germania, Spagna, Francia e, con qualche differenza, Inghilterra), sembra evidente che l’idea sia quella del dominio della “grande” squadra, della sua storia. In questi tornei, la vittoria è premiata con la possibilità di rivincere. Insomma, a chi è in testa è data l’opportunità di aumentare il divario con le inseguitrici. Ci sono i campioni simbolo, i Messi e i Ronaldo, ma alla fine sono gli stemmi a contare. L’impresa sportiva è racchiusa nell’atto di rivincere. E se non replichi il successo dopo nove anni o dopo un triplete allora è un fallimento senza precedenti.
Così accade che si istituisca un torneo come la Champions League che affida risorse maggiori a chi ottiene i risultati migliori, creando delle vere e proprie potenze, il cui regno può essere messo in discussione solo da una crisi passeggera, da errori di valutazione, da una breve fase di ricostruzione. Talvolta può succedere che si prenda a parametro zero un fuoriclasse come Paul Pogba o che giocatori come Carlos Tévez e Andrea Pirlo vivano un’insperata brillante seconda (se non terza) carriera, altre che si punti su buoni elementi a cui manca lo spunto finale, come Aaron Ramsey, Rodrigo Bentancur e Adrien Rabiot, il molle centrocampo juventino che, senza esserne consapevole, sembrava agire nel tempo invertito di Tenet . E poi mentre qualcuno invecchia, ad altri non è dato il tempo di maturare, perché nell’epoca dell’egemonia è vietato prendersi delle pause.
Comunque, per tranquillizzare lo spettatore europeo a cui evidentemente piace sempre vincere o sempre perdere, a una potenza ne subentra puntualmente un’altra. Il tanto celebrato Leicester di Claudio Ranieri e l’Atletico Madrid di Diego Simeone, che non sono proprio delle Cenerentole, rappresentano delle eccezioni che confermano la possibilità dell’allineamento dei pianeti. Calcolare il numero dei titoli vinti e dedurre delle tendenze (come troverete sintetizzato in fondo all’articolo), è certamente un metodo superficiale che, però, in modo immediato permette di cogliere alcune differenze rispetto al modello statunitense, cioè a quel sistema che con determinate regole cerca di contrastare il successo ripetuto in un arco temporale ritenuto eccessivamente lungo.
Negli Stati Uniti, infatti, si è affermato il concetto di “dinastia”, cioè di un gruppo di campioni che insieme vincono e lasciano ai posteri la loro eredità. Posteri che non hanno le stesse divise di chi ha redatto il testamento. Certo, vi sono team più titolati di altri, o per tradizione (Pittsburgh nel football, Boston nel basket) o per il mercato che città come Los Angeles (pallacanestro) e New York (baseball) sanno offrire. Ma tutte le squadre sono sempre state ricostruite da zero, con digiuni di successi anche molto lunghi. Il principio fondamentale è vendere uno spettacolo con una trama incerta, appassionante, a rischio di avere una finale di basket tra San Antonio e New Jersey. Nella NBA, i Los Angeles Lakers hanno dovuto aspettare undici anni per tornare in vetta. Una decade costellata da sonore sconfitte, da playoff neanche raggiunti. Dopo le vittorie di Kobe Bryant, in coppia prima con Shaquille O’Neal e poi con Pau Gasol, i gialloviola hanno dovuto ricostruire tutto ripartendo da zero. Si sono liberati dei contratti con giocatori ormai a fine carriera o incapaci di reggere il peso della squadra senza il compianto Bryant, hanno inserito le scelte universitarie, quindi hanno ottenuto la disponibilità salariale per mettere sotto contratto LeBron James e, infine, hanno ritrovato quell’appeal per invogliare un campione come Anthony Davis a firmare. Un processo che sono in tanti a cercare di mettere in pratica con risultati non necessariamente positivi. Nel frattempo, negli undici anni di attesa tra un titolo e l’altro, hanno trovato modo di vincere Dallas Mavericks, Miami Heats, San Antonio Spurs, Golden State Warriors, Cleveland Cavalliers e Toronto Raptors. Sei squadre in una decade contrassegnata da uno dei giocatori più forti di sempre (LeBron James) e da una delle squadre già entrate nella storia della NBA (Golden State Warriors).
Qual è il segreto? Innanzitutto, i playoff che rimettono in discussione tutto quello che è accaduto nella stagione. Se si pensa a come ha chiuso la Juventus gli ultimi due campionati, viene da pensare che ai playoff probabilmente le cose avrebbero potuto prendere una direzione differente. Poi i budget. Ad esempio nella NBA, le franchigie possono spendere non oltre una certa cifra che viene stabilita a seconda dei ricavi (biglietti, televisioni, piattaforme, merchandising). Nel caso superassero il tetto salariale, sarebbero costrette a pagare una multa, la luxury tax, che di anno in anno aumenta in modo esponenziale. Le stesse franchigie, tuttavia, devono sostenere una spesa minima. Impossibile risparmiare. In questo modo, si tende a garantire la competitività di una quindicina di team. Tornado in Italia, squadre come Udinese e Atalanta, solo per citare due recenti esempi virtuosi, sarebbero state costrette ad ampliare le loro ambizioni e puntare alla vittoria del campionato, invece che smembrare di anno in anno le proprie formazioni sperando di far quadrare i conti e di trovare sostituti all’altezza. II terzo aspetto riguarda il cosiddetto mercato. Qui la differenza è pressoché impossibile da colmare. Sempre prendendo come punto di riferimento la NBA, le franchigie possono prendere i free agent (rispettando il tetto salariale, altro che rose da trenta giocatori) e scambiare gli atleti a patto che in entrata e uscita i contratti si pareggino. In parole più semplici (senza entrare troppo nel dettaglio, perché i principi sono abbastanza complessi), se i Lakers prendono Anthony Davis che ha un salario di trenta milioni di dollari annuali, i New Orleans Pelicans dovranno ricevere uno o più giocatori che insieme abbiano quel valore contrattuale. Per questo motivo, quando si elaborano certi scambi, possono entrare in gioco persino tre o quattro squadre come è avvenuto la settimana scorsa con il clamoroso passaggio di James Harden da Houston a Brooklyn. Ora, si pensi a Neymar, al Barcellona e al Paris Saint Germain che paga la clausola rescissoria di 222 milioni di euro, o a Ronaldo, al Real Madrid e alla Juventus, e si può comprendere perfettamente che stiamo parlando di due pianeti totalmente differenti, nei quali ci sono squadre che possono fare certe operazioni e altre che sono destinate semplicemente a fare numero.
Le franchigie NBA si possono rafforzare non solo reclutando free agent e attraverso scambi (che comunque danno l’opportunità anche a chi cede di allestire una squadra competitiva nell’immediato presente o nel futuro) ma anche per mezzo delle scelte. Cioè, nel momento in cui i giocatori provenienti dai college e dai campionati esteri si rendono eleggibili per giocare nella lega professionistica statunitense, si mette in atto una specie di lotteria che privilegia le squadre con il peggior record stagionale. Naturalmente, il sistema a cui si fa riferimento non prevede retrocessioni e ha un bacino a cui attingere “gratuitamente”. Provate a immaginare che il miglior giovane (Michael Jordan), capace di cambiare le sorti di un team (i derelitti Chicago Bulls degli anni Settanta e primi Ottanta), invece di prendere la via di Madrid o Parigi, si trovi a giocare dai 4 ai 7 anni in una formazione che fino a quel momento era in fondo alla classifica. E che l’anno dopo, la stessa squadra che ha fatto un piccolo salto di qualità si ritrovi ancora a mettere in rosa un altro calciatore promettente. Forse, nel giro di tre o quattro anni nascerebbero i Golden State Warriors del calcio. Ora svegliamoci e invece di un campionato incerto con le dinastie, riavremo l’egemonia sull’asse Torino-Milano e abbonamenti satellitari o Internet da pagare per risultati assolutamente prevedibili.
I titoli vinti nei campionati europei e quelli nelle leghe professionistiche statunitensi.
In Italia 72 campionati su 118 sono stati vinti dal trio Juventus (36), Inter (18) e Milan (18). La stagione 2000-2001 è l’ultima che ha visto trionfare una squadra diversa da quelle tre, la Roma. Poi per diciannove edizioni è stato un dominio segnato anche da due strisce importanti, cinque titoli consecutivi per l’Inter, nove per la Juve. In Germania la striscia di vittorie consecutive, ancora aperta, appartiene al Bayern Monaco con otto successi. I bavaresi dal 1969 a oggi si sono aggiudicati ventinove dei trenta trofei nazionali in bacheca (il primo lo vinsero nel 1932). A differenza dell’Italia, la Bundesliga ha una squadra dominatrice e poi una serie di formazioni che si sono divise equamente, a seconda delle epoche, le cosiddette briciole. In Spagna fa più effetto conteggiare i titoli delle altre squadre: 29, dieci dei quali conquistati dall’Atletico Madrid, l’unica compagine in grado di interrompere negli ultimi sedici anni il dominio di Real Madrid (34) e Barcellona (26). In Francia, le strisce vincenti appartengono a più squadre. Il Saint-Étienne tra gli anni Sessanta e Settanta, l’Olympique Marsiglia tra gli anni Ottanta e Novanta, l’Olympique Lione all’inizio del nuovo millennio e, infine, il Paris Saint-German che si è aggiudicato sette degli ultimi otto titoli assegnati e che da quando ha una proprietà straniera non ha praticamente rivali. L’eccezione al modello egemonico europeo, proviene dall’Inghilterra e dalla Premier League. Se è vero che anche in questa competizione si è affermato prevalentemente un duopolio, quello formato dal Manchester United (20) e dal Liverpool (19), negli ultimi vent’anni hanno primeggiato Arsenal, Chelsea, Manchester City, le già citate Manchester United e Liverpool e il Leicester City. Solo il Manchester United è riuscito ad aggiudicarsi il titolo per un massimo di tre volte consecutive. Insomma, un caso unico in Europa e infatti, la Premier League è il campionato con più fascino, capace di attirare le attenzioni di un vasto pubblico internazionale. Naturalmente, vi sono dei motivi prevalentemente legati agli investimenti di capitali stranieri che hanno finito per produrre questa incertezza, anche se a onor del vero nelle singole stagioni è accaduto, come l’anno scorso, che la squadra partita in testa ha finito per tagliare il traguardo con ampio margine rendendo poco spettacolare la corsa al titolo.
Nella NBA, il campionato professionistico di pallacanestro, dal 2000 a oggi, nonostante vi siano stati tre cicli importanti (San Antonio Spurs, Los Angeles Lakers e Golden State Warriors), otto squadre diverse hanno vinto il titolo e altre sei lo hanno sfiorato arrivando alle finali. Dunque quattordici franchigie hanno lottato per il titolo su trenta totali. E spingendoci oltre il 2000, solo otto squadre di quelle che attualmente partecipano al campionato non sono arrivate alle finali. Si può fare lo stesso discorso per la NFL (National Football League). Partendo dal 2000, sono tredici i team a essersi aggiudicati il Super Bowl, mentre sei hanno disputato almeno una finale perdendola. Perciò diciannove squadre su trentadue hanno lottato per il titolo. Dal 1967, anno della prima edizione, solo quattro franchigie non hanno mai partecipato all’evento sportivo più importante negli Stati Uniti. Nelle World Series del baseball, sempre partendo dal 2000, si sono alternate quattordici squadre vincitrici e sei che hanno partecipato alla sfida perdendo. Ventinove squadre su trenta almeno una volta hanno partecipato alle finali. Infine l’Hockey. Dal 2000, sono dodici le squadre che hanno portato a casa il trofeo e dieci ad aver disputato la finale perdendola.