Se c’è un incrocio possibile tra le visioni e le suggestioni della realtà che vengono ricevute e accolte dallo sguardo e le seduzioni della fabula tradotta nell’espressività mutevole di varie forme, Grand Tour, l’ ultimo film di Miguel Gomes, su cui qui torniamo, potrebbe sicuramente esserne il centro nevralgico di passaggio, il punto d’incontro e insieme di frattura di due vite, due culture, due modi di guardare. L’ intreccio, lineare e orizzontale nella sua costruzione di racconto, è quello di un melodramma che trova nel viaggio la matrice scatenante dell’ impossibilità e della separazione: lui, Edward, è un funzionario inglese della Birmania del 1918, quando era colonia britannica che, all’ indomani dell’arrivo di Molly con la quale dovrebbe sposarsi, comincia una fuga circumnavigando il sud est asiatico fino a spingersi in territori, stagioni, condizioni sempre più estreme e distanti. Non c’è una vera e propria ragione per questo moto permanente che assume i tratti di un’ insofferenza e un’ inadeguatezza- fino alla completa sparizione/eliminazione- e al tempo stesso di una tensione verso l’ alterità di un mondo, quello orientale, che ha saputo coniugare trasparenza e ambiguità, apparenza e sostanza. Gomes mette in contatto queste dicotomie e le fa confluire, o meglio esplodere , verso una visione terza, libera e svincolata dalle pastoie della narrazione di riferimento (dal mélo esotico alla storia di spionaggio, dalla commedia di costume fino ad incursioni quasi fantasy da orizzonte perduto) come dalla registrazione e dalla riproduzione delle immagini dal vero in una valenza documentaria di matrice basicamente osservativa.
Il segno è già dato in apertura, quando vediamo la meraviglia della ruota panoramica di un luna park a cui si aggrappano i corpi elastici e acrobatici di ragazzini birmani. Quello che Gomes sta mostrando non è solo la testimonianza di un paese, nello specifico la Birmania della contemporaneità filmata dalle sue riprese dal vivo, colto nella sua espressione più vitale e dinamica; quel momento trasfigura in sé l’ inizio del grand tour, il movimento circolare e a incastro che riavvolge e sovrappone la vicenda. Dopo una prima parte, fino alla sua uscita di scena, in cui è stato Edward a portare avanti la tournée di un’ implosione sentimentale dispersa nella spazializzazione geografica, il punto di vista si sposta sul personaggio di Molly che, nell’asincronia di uno slittamento temporale (quando arriva il telegramma che annuncia il suo arrivo, lui continua la fuga), attraversa gli stessi luoghi (Birmania, Cina, Giappone) e conserva la medesima condizione di meraviglia e fascinazione, oscurata e obliata dalla progressiva dissoluzione di una promessa e di un desiderio. Ogni straordinaria e irripetibile immagine, che sia un rito collettivo, una performance musicale o un gesto quotidiano degli abitanti autoctoni di quelle terre, che Gomes ha realizzato, non si limita a fare da commento e contrappunto a colori e in presa diretta rispetto alla risalita ostinata e contraria del fiume, sempre più in bianco e nero e in differita, di Edward e Molly; l’ effetto tutt’altro che programmatico e audacemente poetico è di una costante digressione non solo visiva, ma anche sonora. Le voci off nell’ulteriore diaspora di fuori campo – quello di Molly prima e di Edward poi – appartengono al linguaggio e soprattutto alla lingua di narratori che sembrano usciti dal folklore mitologico, leggendario, religioso della pluralità delle culture asiatiche.
C’ è dunque un ulteriore filtro, un distanziamento straniante, un plot linguistico evidentemente portato nella rappresentazione anche dai personaggi inglesi che parlano in portoghese, come a svelare la falsità, e dunque la realtà, della messa in scena. E a un certo punto, quando l’ingresso dentro l’oscurità fitta di una natura né turisticamente esotica né esistenzialmente indifferente entra nel vivo di uno smarrimento e di un quasi impazzimento, anche il dialogo con la realtà si perde fino a essere imprigionato nell’identificazione e nella proiezione con un teatro di ombre e di burattini, il meccanismo stesso del dispositivo cinematografico. Siamo al di là della sponda del realismo magico portoghese, non c’è illusione, sovrapposizione o mascheramento. Uno strappo preannunciato simbolicamente dalle vezzose risatine di Molly di fronte ai contro telegrammi formali e laconici di Edward e all’insinuazione dell’entourage dell’aristocrazia coloniale – contrappunto alle facce autentiche dei popoli – secondo cui quella del promesso sposo non è una posticipazione, ma un congedo, un addio al mondo occidentale sprofondato in copioni e in convenzioni, inclusa l’ambientazione e il parterre umano a contorno e decorazione, che ha perso il contatto e la tensione verso l’autenticità. L’archivio di memoria e immaginario creato da Gomes può essere allora letto e visto finanche in una chiave liberatoria di pulsione e stupore, di esperienza immersa contro una concatenazione di azioni simulate, sublimate, raccontate, inclusa la morte. La partitura di voci narranti può di fatto rimandare al teatro No giapponese, con la funzione di descrivere, alla maniera delle didascalie di una pièce, i sentimenti e le azioni della coppia in circolare e beckettiana ricerca (anche l’entusiasta e impertinente Molly alla fine si lascia andare allo scoramento e alla dubbio).
La riflessione critica, con il cinema esplicitato e dichiarato nella sua funzione di riflesso chiaroscurale della realtà, richiama dunque un’ulteriore istanza fremente in una prospettiva di ricerca e di esplorazione com’è quella di Gomes: la conoscibilità e la praticabilità di una mappatura terrestre, particolarmente distante ed ignota rispetto al baricentro anche antropocentrico, senza le fisime delle ossessioni, dei fantasmi, delle ferite narcisistiche amplificate dalla risonanza di un individualismo e di una solitudine, di una distanza che non è più spaziale e temporale, ma tocca le costruzioni sociali e culturali e la stessa identità (sia per Molly che per Edward ben presto si esaurisce lo scopo del ritrovarsi e dello sfuggirsi l’un l’altro, e prevale la vertigine della perdita di sé e di tutte le coordinate). Per questo in alcuni momenti, verso la parte conclusiva in particolare, si percepisce la risonanza con le immagini altrettanto misteriose, evocative, debordanti rive e approdi, di Lav Diaz, anche se il regista filippino – anch’egli in bilico tra il dentro e il fuori di una verità finzionale (meglio, performativa) e di una finzione veritiera – mantiene il punto dall’interno di una coscienza sopita e risvegliata, proprio, o nonostante, perché i suoi personaggi abitano quei luoghi e si esprimono in quella lingua. Con una posizione rigorosa, in un tempo di appropriazione e manipolazione delle differenze e degli scarti tra visioni e immaginari, Gomes dichiara di accedere dall’esterno e non cela le conseguenti problematicità e contraddizioni che questo accesso comporta.
Un affondo strabiliante ed amaro, che non scorda mai la eco di un potere asimmetrico e lo struggimento di un rimpianto sentimentale.
Premio per la miglior Regia al Festival di Cannes 2024
In sala dal 5 dicembre 2024
Grand Tour – Regia: Miguel Gomes; sceneggiatura: Miguel Gomes, Mariana Ricardo, Telmo Churro, Maureen Fazendeiro; fotografia: Rui Pocas, Sayombhu Mukdeeprom, Gui Liang; montaggio: Telmo Churro, Pedro Filipe Marques; interpreti: Goncalo Waddington, Crista Alfaiate, Claudio da Silva, Lang Khe Tran, Jorge Andrade, Joao Pedro Vaz; produzione: Uma Pedra no Sapato, Vivo Film, Shellac Sud, Cinema Defacto; origine: Portogallo, 2024; durata: 129 minuti; distribuzione: Lucky Red.