Più si è in quota più la visuale permette di vedere altro, oltre. È però il percorso, da figlio della strada a premio Nobel, la parte più difficile, e solo una volta arrivati in cima alla collina si può ammirare il panorama, le visioni che appaiono.
Hill of Vision, per la regia di Roberto Faenza, incontra l’amore spasmodico della RAI per biopic e seconda guerra mondiale e lo intreccia con un ottimo lavoro di maestranze, costumi e scenografie in primis. È uno splendido lavoro al dettaglio, pulito, forse così pulito che viene il dubbio che l’Oliver Twist di turno, forse, un po’ di fuliggine reale dovrebbe averla sulle guance. Il rischio di cascare nell’effetto Disney, insomma, è dietro l’angolo.
Mario Capecchi (Jake Donald – Crookes) nasce da Lucy (Laura Haddock), madre americana accorsa in Italia per contrastare il fascismo, e da Luciano (Francesco Montanari), padre aspirante fascista. La contraddizione non ha neppure il tempo di scoppiare, è già guerra e Mario si ritrova tra le montagne, tra sacchi di farina e aerei che chiamano il saluto dei bambini e rispondono con mitragliate aria terra. L’isola che non c’è tra le montagne ha così vita breve, il giovane abbandona i bambini sperduti e si ritrova sulla strada. La madre è sparita, il padre è un ricordo lontano da poter raggiungere per un breve istante prima che anche da lui si voglia fuggire. Inizia un viaggio on the road con compagni al seguito, prima che un orfanotrofio non li raccolga e lì avvengano i primi (tanti) baci e anelli di paglia infilati al dito.
Ritorna però l’inferno della guerra, e soltanto un ulteriore ritorno, quello della madre, sopravvissuta ai campi di concentramento, può salvarlo. Si passa così dalla scuola della strada alla strada americana «dove ai lati però ci sono grattacieli e a tavola i piatti pieni ogni giorno». Mario raggiunge con la madre gli zii (Edward Holcroft) e inizia una nuova vita: i ruggenti Stati Uniti del dopoguerra lo accolgono, ma lui non è studente qualunque. Anzi, non è nemmeno uno studente. Mai andato a scuola, è un animale selvaggio: non sopporta le regole, vuole solo infrangerle. E allora bisognerà trovare una soluzione perché:
L’America ha mandato i suoi giovani a combattere per la libertà, e lei mi vuole dire che non siamo capaci di educare un ragazzo che ha saputo sopravvivere a questa stessa guerra tutto da solo?
Roberto Faenza ritorna ai tempi della seconda guerra mondiale, come aveva fatto con il suo film più celebre, Jona che visse nella balena (1993). Lo fa partendo da una storia che ha dell’incredibile, un ragazzo espulso dalla scuola che in un mese imparò l’inglese e sessant’anni dopo vincerà il Nobel per la medicina. Il succo della vicenda, insomma, c’è, ora bisogna solo metterlo su pellicola. Lo aiuta Milena Canonero per i costumi (ma non solo) – quattro premi oscar per Barry Lyndon, Momenti di gloria, Marie Antoinette, Grand Budapest Hotel –, una scenografia curata e un soundtrack che ammicca a temi già noti (Il Postino), non lo aiuta invece una sceneggiatura non sempre brillante e a tratti scontata che rende la vita difficile alla buona qualità degli attori, penalizzati da un doppiaggio italiano non eccellente, spesso artefatto. È infatti l’artefatto, o meglio l’artificio il problema del film.
Si sa, quello del bambino è uno sguardo che vede tutto più grande, e sono pure un paio di occhi che virano al bianco e al nero, meno ai grigi. Per questo motivo l’intera pellicola schiera i personaggi nel nero (padre) o nel bianco (zii e madre). Ma lo sguardo del bambino è anche vista appannata, miopia che chiede credito a una memoria lontana simile al sogno, e quindi dovrebbe lasciare spazio allo sporco, all’imprecisione, all’incerto, dimensione fertile alla credibilità che nella pellicola è però evitata: la fotografia cerca la precisione dell’insieme e poi del dettaglio. È tutto così chiaro, limpido, appunto artefatto. Non pare che la vicenda la si stia guardando dallo spioncino da cui un bambino solitamente guarda la vita o dai ricordi di un vecchio che quella vita tenta di rammentarla, bensì dalla balconata che ogni cosa mostra e vuole mostrare in perfetta definizione. E così laddove la qualità della fotografia cresce e la mdp ricerca una visione più ampia, lì si perde di credibilità e la narrazione fagocita la storia reale che avrebbe di fatto la polpa sufficiente per sopravvivere per conto proprio.
Hill of vision è un film interessante perché vede la RAI fare un passo avanti, su un tapis roulant. Certo non si abbandonano i temi cari – bio e seconda guerra mondiale -, si cerca tuttavia di progredire in avanti in termini di qualità delle maestranze, eppure continua a mancare quella minima volontà di osare che potrebbe educare, non solo ai messaggi contenuti nella pellicola ma anche al linguaggio cinematografico che li traspone. Educare osando, non in sicurezza.
I valori trasmessi sono infatti lodevoli – resilienza e importanza della famiglia per dirne un paio -, si avrà certo un pubblico a cui mostrarlo («Jona ha fatto un milione e mezzo nelle scuole, con questo faccio due milioni» dice Faenza) e la lacrima scende pure quando i ricordi personali cercano di svincolarsi dalla patina narrativa (cassette di lettere come vasi di pandora), eppure si spera che questa RAI versione Disney, che sa tanto di cinema americano di un tempo (indietro quella decina di anni), possa essere giusto uno step e non il primo di un intero filone. Insomma, lo sporco non deve essere bello da vedere, deve essere sporco e basta. Possibilmente contagioso, su corpi e pellicola e spettatore.
Dal 16 giugno al cinema
Hill of Vision – regia: Roberto Faenza; sceneggiatura: Roberto Faenza; fotografia: Giuseppe Pignone; montaggio: Walter Fasano; scenografia: Francesco Frigeri; costumi: Milena Canonero, Bojana Nikitovic; musica: Andrea Guerra; interpreti: Laura Haddock, Edward Holcroft, Elisa Lasowski, Francesco Montanari, Jake Donald – Crookes, Sofia D’Elia, Ruben Buccella, Lorenzo Ciamei, Rosa Diletta Rossi, Beatrice Aiello; produzione: Elda Ferri, Milena Canonero, Rex Glensy; origine: Italia, Stati Uniti, 2022; durata: 101’; distribuzione: Altre Storie.