La conversazione di Francis Ford Coppola (Di nuovo in sala)

  • Voto
4.5

La fallacità e la precarietà della vita passano attraverso l’esperienza dei sensi: e il cinema, con la sua capacità di riprodurne simultaneamente l’asseto audio e visivo, come nessun’altra lingua ha saputo arrivare al nocciolo di questa fondamentale, dolorosa e sconsolata questione. Così La conversazione di Francis Ford Coppola, che in questi giorni riesce al cinema sulla scia della morte amarissima, per modalità e circostanze, del suo gigantesco protagonista Gene Hackman  (nonché interprete di una lunghissima stagione di struggenti anti eroi del cinema hollywoodiano alle prese con le macerie post ideologiche di un mondo in disfacimento finanche nelle forme produttive ed estetiche della sua rappresentatività) non è solo il film manifesto quasi in presa diretta di una  generazionale disillusione paranoica: nel 1974 infatti, quando il film  vince la Palma d’oro al Festival di Cannes, gli Stati Uniti  avevano appena attraversato le pastoie dello scandalo Watergate, che aveva visto implicata la presidenza di Richard Nixon nel più clamoroso caso di spionaggio politico della Storia americana; Coppola, nel raccontare la storia di Harry Caul (Hackman), lo schivo, taciturno e meticoloso investigatore privato che si serve dei più sofisticati e avanzati  apparecchi di intercettazione e registrazione, aveva colto di certo la fittissima atmosfera di insicurezza, paranoia e sospetto aleggiante tra le maglie di un popolo smarrito e ferito, schiacciato tra l’altro dalla drammatica dismissione in atto del conflitto vietnamita (gli accordi di pace  di Parigi risalivano al 1973).

Ma, come succederà successivamente con Apocalypse Now (1979) del quale La conversazione potrebbe essere considerato una sorta di postilla ante litteram e sotto traccia dell’ orrore-orrore evocato dal comandante Kurtz, e come era accaduto in parte con la saga de Il padrino, la situazione di partenza si espande fino a toccare i margini scorticati di un disagio esistenziale tangibile  nella sua limitatezza tutta umana. Un’irrequietezza impressa a macchia d’olio  fin dalla prima straordinaria sequenza, nella quale Harry e la sua squadra di collaboratori, chiusi in un furgone oppure sparsi tra i passanti di Union Square a San Francisco, pedinano e registrano i movimenti e le parole di un’apparentemente innocua coppia di giovani, un uomo e una donna forse amanti. E la percezione di questo minimale, ordinario evento è da subito alterata, distorta, frammentata in panoramiche e dettagli, corto circuiti tra la chiarezza della visione e l’opacità dell’ascolto, gli interni asetticamente tecnologici nei quali, in ombra, agiscono gli intercettatori e la giornata in pieno sole all’ esterno, con la compresenza di suoni cantanti, parlati, musicati, performanti a sancire un intreccio che dovrà essere poi sciolto e sistematizzato, o meglio decifrato e interpretato.

Probabilmente l’inizio de La conversazione è uno dei più straordinari esempi di messa in opera di una soggettiva libera indiretta nell’abbracciare e restituire il modo con  cui Harry sente, vede e ascolta ciò che gli accade intorno, alla ricerca ossessiva e ineluttabilmente frustrante  di un’impossibile  totalità e trasparenza percettiva di ogni elemento. Come peraltro indica la presenza nella piazza di un mimo, personaggio vedibile e non udibile,  il cinefilo Coppola rievoca l’altro grande film che, qualche anno prima, si era interrogato e focalizzato in quel caso specificamente sull’immagine e sulla sua valenza ontologica di veridicità e falsità, muovendosi sempre nello sfasamento che intercorre tra la processualità dell’esperienza e la verifica quanto mai incerta del documento: se nel finale di Blow up Michelangelo Antonioni lasciava ancora alla performance, e proprio a quella di due mimi intenti a simulare una partita di tennis, la funzione di sancire la caduta dell’inganno, racchiusa nel sorriso disilluso e colluso di David Hemmings, Coppola mette al fuoco della sua visione arsa il substrato cattolico di colpa ed espiazione, transitando in continuazione tra le contraddizioni private di un’ etica ambigua e la falsa coscienza collettiva  di un’interna nazione.

Harry professa, fin dalle prime battute, il suo distacco nei confronti dei contenuti delle registrazioni che raccoglie e delle storie dei propri clienti, riconoscendo, nell’esigenza di ascoltare e riascoltare fino allo sfinimento i nastri acquisiti,  solo la constatazione di una precisione tecnica, di una qualità che risponda a un qualche vacuo standard oggettivo (di cui stabilisce sempre lui, autisticamente e onnipotentemente, il livello); un guscio, un riparo, una corazza, esattamente come l’appartamento dislocato e periferico dove abita, che ben presto viene permeato delle insinuazioni di altri occhi e di altre orecchie, in una sovrapposizione sempre più vorticosa e fumosa- come il sogno incubo che fa e nel quale vorrebbe avvertire la ragazza che ha spiato di un imminente pericolo mortale-di informazioni, sentimenti, rimorsi. Non c’è però nessuna difesa e resistenza da parte sua nei confronti di  questo naufragare: insieme all’Harry Moseby di Bersaglio di notte (altro capolavoro sul sospetto e sulla paranoia come forma mentis/modus vivendi e operandi diretto da un grande cineasta troppo poco citato come Arthur Penn) si tratta del personaggio più disarmante e commovente tra quelli a cui ha dato corpo e cuore Gene Hackman. Gli accessi e le implosioni rispetto alla sua vita cosi decentrata sono filmati da Coppola come alcuni tra i momenti più asciuttamente poetici e toccanti del suo cinema: la visita alla piccola, acerba amante che lo aspetta fuori da qualsiasi tempo d’attesa, la passeggera liaison sessuale con una escort ingaggiata per sedurlo e ingannarlo (e alla quale svelerà la propria tenerezza e vulnerabilità), e soprattutto il jazz come sincopato respiro vitale e come pratica. Quello suonato da lui stesso in maniera sfiatata e stentorea dentro un sax, alla ricerca di un accordo in differita con la grande orchestra di Duke Ellington riprodotta dalla cassa di un giradischi; una sintonia impossibile vista la dichiarata dissonanza del punto di partenza. Dettagli che sono come schegge conficcate e sporgenti dalle carni massicce di Gene/Harry e suscitano un sentimento misto di comprensione e turbamento, di istintiva, viscerale empatia e di inaccessibile, disturbante distanza.

Gli enormi spazi vuoti sono le distese abissali di una solitudine che non può essere colmata, di una psicosi che non è più contenibile neanche dentro l’ultimo baluardo della consolazione garantito dall’aderire, seppur solo formalmente o anche per un introiettato senso di fede, ad una religione; in preda a una distruttiva furia silente Harry, ormai perso nella  definitiva allucinazione di essere egli stesso spiato e registrato, non risparmia neanche una statuina della Madonna, l’unico oggetto verso il quale aveva mantenuto una cura e un’attenzione, che perde il suo simbolico significato trascendentale di redenzione e salvezza e si riduce a materico segno di presunto contenitore per una cimice o un microfono.

E in quel finale, con le pareti e i pavimenti della casa smembrati e le note del sax che stavolta si intersecano sui titoli di coda e con il pianoforte del leitmotiv, straziante nel suo quieto e ciclico ripetersi, della colonna sonora di David Shire, vorremmo essere con lui. Non con Harry, ma con Gene per non lasciarlo morire ancora una volta da solo di indolenza e di oblio, con in testa  la eco forse lontana di quel castigo senza delitto.

In sala dal 10 al 16 marzo 2025.


La Conversazione (The conversation)  – Regia e sceneggiatura: Francis Ford Coppola; fotografia: Bill Butler; montaggio: Walter Murch, Richard Chew; musica: David Shire; interpreti: Gene Hackman, John Cazale, Allen Garfield, Cindy Williams, Frederic Forrest, Teri Garr, Harrison Ford , Robert Duvall (non accreditato); produzione: Francis Ford Coppola per Paramount Pictures; origine: USA, 1974; durata: 113 minuti ; distribuzione: Lucky Red.

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