La donna del fiume – Suzhou River di Lou Ye

  • Voto

Per aspera ad astra, espressione latina che significa “attraverso le asperità fino alle stelle”, emerge dalle rive notturne di un passato cinematografico carico di pulsioni e suggestioni, La donna del fiume-Suzhou River, realizzato nel 2000 e distribuito solo ora per la prima volta in Italia (dopo essere stato presentato al Festival del cinema di Pesaro nel 2000 appunto) dalla Wanted Cinema in occasione del restauro in 4K.

Un bruciante, inedito connubio di cinefilia immaginifica  e audace realismo, scritto e diretto dal all’epoca promettente Lou Ye, uno degli autori più rappresentativi della cosiddetta sesta generazione di cineasti cinesi. E questo suo film, fin dall’ambientazione in una Shangai popolata di disperati solitari e sbandati che tentano di sopravvivere giorno per giorno e sembra che esistano solo nel riflesso di un’alba o di un tramonto, esprime in una forma compiuta  e con un sentimento ispirato e personale le istanze poetiche e politiche di quella corrente della cinematografia cinese: partire da una riflessione sulla realtà urbana e trasfigurarla in un immaginario che ne svela il senso di smarrimento e di desolazione più profondo. Prima di ogni cosa, c’è comunque la priorità e l’urgenza dello sguardo espressa da Ye attraverso la soggettiva di un personaggio che da osservatore e narratore della storia in cui la sua cinepresa si imbatte (l’escamotage narrativo è assegnargli il mestiere di operatore video) ne diventa uno dei protagonisti, il contro campo sempre invisibile e anonimo di una passione e di un mistero.

Per quanto riguarda citazioni e riferimenti, soprattutto dal punto di vista stilistico e trattandosi anche in quel caso di un noir, il primo titolo che viene in mente è Una donna nel lago di Robert Montgomery del 1947: trasposizione di un romanzo di Raymond Chandler, era raccontato tutto dalla soggettiva del suo protagonista/regista (lo stesso Montgomery interpretava Philip Marlowe) e nelle intenzioni doveva restituire  allo spettatore una forma di immedesimazione e coinvolgimento in prima persona con le vicende raccontate. Al contrario, questo processo di sovrapposizione della prospettiva dello spettatore con quella del personaggio creava un effetto paradossalmente troppo metacinematografico (gli attori che parlano direttamente in macchina), la perdita del punto di riferimento centrale e focale attorno a cui girava la fascinazione e la sospensione del principio di incredulità, ovvero la (onni)presenza nell’inquadratura del corpo cinema del divo eroe, transfert di ogni emozione e pensiero.

Ye si serve invece proprio della dimensione immersiva e spiazzante della macchina da presa a mano che si muove in prima persona in mezzo al degrado etico e materiale e lascia uno spazio, una fessura attraverso cui far penetrare l’elemento onirico e mélo: l’amore, impossibile per i ruoli in cui la vita li ha fatti incontrare, tra la tenera, ingenua Moudan, figlia di un ricco uomo d’affari, e l’introverso, tormentato Mardar, che, ingaggiato dal padre di lei per accompagnarla in città durante gli incontri con le sue amanti, sarà coinvolto da due avidi complici, attratti dalla possibilità di un lauto riscatto, nel rapimento della ragazzina, finendo con l’essere l’ involontario artefice della sua (presunta) morte.

A questo punto si innesta un ulteriore livello, ontologicamente intrinseco alla natura ambivalente del noir, che ha nell’hitchcockiano La donna che visse due volte  la sua manifestazione più alta e sublime e l’inevitabile, circolare termine di paragone per chiunque voglia confrontarsi con l’ossessione del doppio e i relativi fantasmi che essa produce. Cosi Mardar, dilaniato dal senso di colpa per la sparizione nel fiume della sua Moudan, comincia a cercarla in maniera compulsiva e disperata come faceva Scotty /James Stewart con Madeleine/Kim Novak; e a un certo punto anche lui è convinto di ritrovarla viva in carne e ossa in una versione più eroticamente sfacciata e provocante ( Francois Trufffaut disse a Hitchcock,nel celeberrimo libro intervista che gli ha dedicato, che aveva trovato “animalesca” la nuova apparizione della Novak come sensuale e un po’ volgare Judy). Questa Moudan “alternativa” si chiama Meimei, fa la cantante e la ballerina in un malfamato bar di piccoli gangster e delinquenti,  ed è l’immagine riflessa e sovraesposta, con tanto di parrucca bionda e costume a forma di sirena, dell’ innocente fanciulla con treccine e tatuaggi da teenager amata da Mardar in un’altra vita . Se Scotty però attraverso la trasformazione di  Judy/Madeleine nella raffigurazione del suo ricordo interrompe l’incantesimo e l’inganno (liberandosi anche della fobia dell’altezza come sintomo di uno squilibrio della propria stabilità percettiva), Moudan rimarrà schiacciato dal peso di uno struggente e mortifero romanticismo(un climax tragico che arriva forse troppo bruscamente prima di un finale che avremmo voluto più meditativo) . D’altronde, l’identità di Meiemei non può essere mai completamente rivelata , in quanto lei vive solo nell’avvicinamento e nel distanziamento di un cine-occhio: in tal modo ci viene introdotta dal personaggio dell’operatore voce narrante che all’inizio del film se ne innamora e la segue nei suoi andirivieni senza capire veramente chi è e in quale direzione sta andando(metafora amara e potente di un paese allo sbando esistenziale, e probabilmente il vero motivo per cui il film venne bloccato dalla censura del governo centrale cinese e Ye non potè dirigere altre pellicole per due anni)

Ma anche questa storia, gemella e speculare rispetto a quella di Moudan e Mardar, è destinata a concludersi in una separazione generata come una scheggia vagante di illusioni perdute e verità nascoste, sebbene  Meimei di fatto non menta ma si faccia, un po’ bunuelianamente, carnale proiezione di una fantasia ossessiva, destinataria della frustrazione e dell’impotenza di un voyeur, l’occhio che non può più né uccidere né amare. Quello che resta è il  bisogno continuo e permanente, il movimento incessante e frenetico dell’uomo con la macchina da presa in cerca di immagini e immaginari da riprodurre  e rigenerare fino alla fine del mondo:  una promessa da mantenere e rinnovare come quella del meraviglioso incipit sul fiume notturno, con le voci di un uomo e una donna che si giurano di continuare a cercarsi  nello spazio e nel tempo di un cinema così sempre classico e cosi tanto contemporaneo.

In sala dal 14 luglio


Suzhou River Regia e sceneggiatura: Lou Ye; fotografia: Wang Yu; montaggio: Karl Riedlmusica: Jorg Lemberg; interpreti: Zhou Xun, Jia Hongsheng, Hua Zhongkai, Nai An, Yao Anlian ; produzione: Coproduction Office, Essential Filmproduktion GmbH ; origine: Cina, Germania , 2000; durata: 83′; distribuzione: Wanted Cinema.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *