La ragazza della palude di Olivia Newman

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Come Hushpuppy, la bambina di Re della terra selvaggia, anche Kya, la giovane donna de La ragazza della palude ha un contatto non mediato, empatico e quasi telepatico con la natura che la circonda. Ma con il primo film citato , che fece un certo clamore quando uscì nel 2012 fino ad assurgere allo status di piccolo cult (si sono poi un po’ perse le tracce del suo regista, Beth Zeithlin), la pellicola diretta da Olivia Newman ha in comune soprattutto la sceneggiatrice Lucy Alibar (Re della terra selvaggia era tratto proprio da una sua piece teatrale) che torna a raccontare personaggi femminili non conformi, in un contesto sociale e culturale ancora più strutturato, rigido e giudicante come la provincia sudista degli Stati Uniti negli anni ’60 (siamo in Carolina).

Il luogo simbolo di questo confinamento, condizione radicale di una prospettiva esistenziale, psicologia e spazio temporale, resta sempre e comunque la palude: non più rappresentata come melmoso territorio ostile, popolato da mostri preistorici, da conquistare e domare com’era per la piccola, combattiva Hushpuppy, ma oasi verdeggiante e luminosa dove trovare la misura tra la lucidità dell’osservazione e l’abbandono intimo ed estetico alla multiformità dei fenomeni naturali e delle creature animali che ne sono immerse. Da subito, la cesura è infatti nei confronti della spietatezza e della crudeltà del mondo degli uomini, con l’incipit aereo da malickiana soggettiva libera indiretta, inclusa una voce off quanto mai interiore e contemplativa (“La palude conosce la morte“) , che plana sull’immagine di un cadavere maschile in putrefazione tra le piaghe dell’incontaminato paesaggio vergine.

All’origine della storia di Kya c’è dunque una ferita raccontata nella forma ibrida che unisce l’affondo del thriller investigativo, le aperture del lirismo romantico, la tensione dei conflitti sociali e antropologici. Crudelmente abbandonata da madre, fratelli e sorelle in fuga da un brutale padre padrone, con una forzatura narrativa ai limiti del plausibile (non si capisce perché la donna non provi neanche a portare con sé i figli, dopo che ci è stata fatta la descrizione di un suo rapporto di complicità e affetto in particolare proprio con Kya), la giovane fanciulla trova accoglienza, identità, e la sublimazione dei suoi impulsi e del suo immaginario, nella relazione simbiotica con l’ambiente in cui vive; non a caso il primo flashback del suo racconto quasi confessionale è introdotto da un’immagine di lei bambina riflessa nel fiume, sorta di ninfa acquatica sopravvissuta alla decadenza di un mondo arcaico e patriarcale.

In dialettica con l’unità del femminile/naturale (da cui viene escluso dunque l’elemento materno, salvo comparire a un certo punto in forma fantasmatica o, in maniera più evocativa , come spirito guida perduto e ritrovato) si oppone la dicotomia del maschile/culturale nell’incontro e nello scontro con uomini che la rispettano e la abusano, la accolgono e la umiliano: il respingente, problematico padre biologico contro il comprensivo, tenero padre putativo (anche questo doppio: il commesso dell’emporio della locale cittadina e l’avvocato che accetta di difenderla da una palesemente iniqua accusa di omicidio), il primo amore che le insegna il valore della scrittura e dell’arte figurativa, nonché il rispetto per sé stessa, contro l’irrisolto e ambiguo ragazzo borghese che la inizia al sesso, ma la intrappola nel vortice della manipolazione, dell’inganno, della violenza.

Questa struttura complessa viene risolta, almeno per tre quarti,  felicemente su un piano di linearità dalla regista che sceglie il respiro minimale e diaristico da fiaba dark adolescenziale. Immedesimandosi nello sguardo pieno di stupore e limpidezza di Kya sulle cose e sulle persone, al pari dello sbigottimento e della sofferta presa di consapevolezza del male che esiste sulla terra, trova una sponda nelle fattezze carnali ed eteree della quasi inedita Daisy Edgar-Jones. Sempre in bilico tra evocare lo spirito di una Pocahontas occidentale appartenente ad un residuale novecento e l’eroina anticipatrice di una contemporaneità di riscatto ed emancipazione , l’attrice inglese, nella precisione di un silenzio e nello sgranato dei suoi occhi-chiusi-aperti, mantiene qualcosa di misterioso, un’ambiguità impermeabile ad essere penetrata dalla retorica troppo facile sugli outsiders. A questo proposito ci sarebbe da recuperare I diffidenti, perturbante e poco conosciuto film di Andrej Končalovskij sull’essenza delle persone che abitano i territori paludosi della Louisiana, sfuggenti (Shy people, gente timida, era il titolo originale) e incomprensibili secondo la raziocinante e intellettuale percezione degli stranieri cittadini, legate indissolubilmente ai cicli naturali della vita e della morte, all’ineluttabilità dello scorrere dell’acqua fiumana.

Ma se Končalovskij andava alle radici dell’impossibilità di un incontro e di una comprensione (l’altro da sé, non più il buon selvaggio di Rousseau, è possibile conoscerlo solo in quanto  “soggetto” da documentare) su cui pesa anche una forte discriminante classista ed economica, Newman preferisce restare sulla dimensione personale che dunque prevede e ammette la realizzazione individuale di Kya in un passaggio tra il suo esclusivo habitat di provenienza e la realtà al di fuori di esso (a proposito di documentazione, diventerà autrice di una serie di libri scritti e illustrati sulla fauna e la flora della sua palude).

In egual misura la sua regia trova la quadratura del cerchio, anzi di cerchi concentrici che vorrebbero coniugare una sensibilità per le immagini tradotta probabilmente dalla poetica pre-ambientalista e anticapitalista di Henry David Thoreau (con Kya epigona del protagonista di Walden ovvero vita nei boschi) e l’acutezza analitica su contesti socio economici e dinamiche di potere  del legal drama di matrice Grishamiana (esempi alti, L’uomo della pioggia di Francis Coppola e Conflitto di interessi di Robert Altman). Se sul primo versante c’è più di un momento memorabile (i fuochi d’artificio per il 4 luglio che Kya vede dalla sua riva solitaria, la palude osservata per la prima volta in panoramica dall’alto di una torretta), l’altro aspetto ha parecchie incongruenze e più di un calo di tensione, anche a causa di una durata (126 minuti) per la quale era necessario uno sguardo forse più enigmatico, ambiguo, disorientante, al pari dei segni e degli indizi di cui è sparso quello che vorrebbe essere, tra le altre cose, il romanzo breve, oppure il racconto  lungo, di una vita tentata dalle possibilità immanenti di un nuovo mondo e la tensione trascendentale verso la meraviglia.

In sala dal 13 ottobre


La ragazza della palude (Where the Crawdads Sing) – Regia: Olivia Newman; sceneggiatura: Lucy Alibar; fotografia: Polly Morgan; montaggio: Alan Edward Bell; musica: Michael Danna, Taylor Swift; interpreti : Daisy Edgar-Jones, David Strathairn, Taylor John-Smith, Harris Dickinson, Michael Hyatt, Ahna O’Reilly; produzione: Reese Whiterspoon, Lauren Neustadter per Columbia Pictures e Hello Sunshine; origine: USA 2022; durata: 126 minuti: distribuzione: Sony Pictures/Warner Bros.

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