Ma Rainey’s Black Bottom

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Barnesville, Georgia, 1927. Due ragazzini corrono nel bosco. Fra le ombre notturne di una serata estiva si erge un enorme tendone da circo. All’esterno, gli spettatori attendono il proprio turno. All’interno, un vecchio pianoforte tossisce qualche accordo. La batteria arranca in mezzo al pubblico accaldato. Ovunque c’è una gran confusione. Poi l’immagine si fa più nitida e, dopo un inseguimento sfrenato, la cinepresa giunge infine alla propria meta: sul palco, vestita di rosso, la cantante blues Gertrude Pridgett (1886 – 1939) in arte Ma Rainey (interpretata da una bravissima Viola Davis) si esibisce con una leggerezza talmente grave da lasciarci esterrefatti e al tempo stesso piacevolmente divertiti. Ma se pensate di mettervi comodi e godervi lo spettacolo, beh, vi sbagliate di grosso: prima ancora che possiate rendervene conto, la pellicola riprende la sua galoppata verso Chicago, Illinois. Qui e solo qui, nella metropoli della musica per antonomasia, la trama può iniziare a srotolarsi.

Ma’ Rainey’s Black Bottom , da qualche tempo visibile su Netflix, non è affatto articolato come una sinfonia, semmai come un ragtime. Attraverso improvvisi tagli e repentini cambi di prospettiva, George C. Wolfe ci introduce fra le quinte dell’omonima pièce autografata dal pluripremiato drammaturgo August Wilson, seconda tappa del Ciclo di Pittsburgh in cui lo scrittore dipinge a tratti crudi l’odissea afroamericana dalle origini ai giorni nostri. Interessante notare come Denzel Washington, produttore della pellicola, sia già alla sua seconda avventura con Wilson, dopo il successo di Fences (2016).

Ma torniamo alla rutilante Chicago anni ’20, tanto rimasticata nell’immaginario comune da non aver bisogno di chissà quale preambolo: qualche inquadratura sulle strade claustrofobiche, sugli immensi grattacieli rigorosamente ripresi dalle fondamenta, sulle auto che sgomitano nella carreggiata pare essere sufficiente per definire le coordinate spaziotemporali di un paesaggio ormai fin troppo familiare. Il regista non ha tempo da perdere (nessuno, durante i roaring twenties, ne ha): veniamo infatti subito catapultati nello studio di registrazione Sturdyvant, dove s’incrociano – forse per l’ultima volta – le vite del trombonista Cutler (Colman Domingo), del bassista Slow Drag (Michael Potts), del pianista Toledo (Glynn Turman) e del giovane trombettista Levee (Chadwick Boseman). Da questo momento in poi, il nostro sguardo si muoverà solo fra i muri scrostati della sala prove, luogo nel quale la band viene immediatamente rinchiusa, e i corridoi dei piani alti in cui due manager nevrotici non fanno che agitarsi battendo i piedi. Insomma, al di sotto ci si raccontano aneddoti, al di sopra ci si mangia le unghie. La band alterna momenti ameni a confessioni impronunciabili, nemmeno per un istante ci dimentichiamo di dove siamo, né tantomeno di chi ci parla. Nel frattempo, la musica riempie l’aria. Tutti attendono l’arrivo di Ma Rainey, artista dal carattere non certo facile. Che si presenta in grande stile, ovvero sfasciando una macchina e insultando i suoi agenti bianchi. L’arrivo della cantante intensifica un crescendo sempre più doloroso, gli allegro con brio si trasformano in allegro moderato, per poi scomparire all’orizzonte. L’azione segue lo stesso ritmo frammentato e schizofrenico che caratterizza le esistenze dei protagonisti; l’intreccio incespica di proposito nella furia giovanile di Levee, nella stanca saggezza di Toledo, nella fede dispotica di Cutler e, com’è giusto che sia, nei continui capricci di Ma. L’obiettivo si limita a guizzare come un pazzo fra un volto e l’altro, fra una stanza e l’altra, fra una storia e l’altra, alternando silenzi ingombranti a selvaggi stomp.

Ciò che colpisce di quest’epopea afroamericana è il divario generazionale su cui s’innesta tutto il dramma. A Wilson e Wolfe non basta abbozzare a grandi linee il cannibalismo che regolava all’epoca i rapporti fra l’America bianca e quella di colore: per parlare di schiavitù, oppressione, sfruttamento, speculazione occorre portare alla luce le tragedie e i conflitti personali di ogni individuo. Così riemergono le leggende superstiziose di Cutler, la rassegnata disillusione di Toledo, ma soprattutto la sfrenata violenza di Levee, esponente di una gioventù abbandonata tanto dai propri padri quanto da un futuro ancora reticente ad accogliere chi desidererebbe emanciparsi. Ma a dominare incontrastato il palcoscenico è l’animismo antico e ironico di Ma, unica nota da cui il blues nasce e a cui il blues ritorna. In fondo, la musica serve soltanto a distrarre l’uomo dalle sue cattive abitudini: prima fra tutte, quella di rimanere in silenzio.


Cast&Credits

Ma’ Rainey’s Black Bottom – Regia: George C. Wolfe; sceneggiatura: Ruben Santiago-Hudson; fotografia: Tobias Schliessler; montaggio: Andrew Mondshei; interpreti: Viola Davis (Ma Rainey); Chadwick Boseman (Levee); Glynn Turman (Toledo); Colman Domingo (Cutler); Michael Potts (Slow Drag); produzione: Mundy Lane Entertainment, Escape Artists; origine: USA 2020; durata: 93’

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