Malqueridas di Tana Gilbert (SIC – Gran Premio Iwonderfull)

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Da un certo punto di vista, provare a offrire allo spettatore una chiave di lettura di Malqueridas, realizzato dalla regista cilena Tana Gilbert (classe 1992) che con questo suo primo lungometraggio s’aggiudica il Gran Premio “Iwonderfull” della Settimana internazionale della critica di Venezia 2023, non sembra affatto complicato. Ci troviamo di fronte a immagini, in forma di sequenze in movimento e di foto, girate esclusivamente per mezzo di telefoni cellulari. Dunque, un tipo d’esperienza visiva a cui tutti noi siamo sempre più abituati e avvezzi. Riceviamo infatti quotidianamente video, foto e “vocali” (come si usa dire oggi) da amici e parenti anche solo per farci sapere in quale preciso luogo si trovino, in quale particolare situazione si sono trovati protagonisti, a volte in sostituzione addirittura di un messaggio alfanumerico inviato “per iscritto”. Insomma, un mix di materiali a noi notissimo, si potrebbe dire appunto familiare, con cui facciamo i conti tutti i giorni.

Chi scrive non ha alcuna intenzione di aprire il vaso di Pandora “sull’utilità e il danno dell’uso del telefonino e delle sue immagini prodotte”, bensì intende limitarsi a dire che formalmente questo film ci è prossimo, ci è vicinissimo forse proprio come ci sono fortemente adiacenti i quadri di Francis Bacon, se prendiamo come riferimento le tesi di Deleuze nel suo saggio dal titolo Logica della sensazione. Nel senso che lo spettatore di oggi, soprattutto quello giovanissimo, è, sempre dal punto di vista formale, un tutt’uno con questo tipo di rielaborazione dell’esperienza vissuta-visiva al punto tale che si trova, in fondo, subito a suo agio. Ma, si sa, in ciò che in apparenza immediatamente ci fa sentire formalmente a casa, si nasconde l’invisibile, ovvero il difficilmente chiaro, anzi l’inimmaginabile. E qui le cose s’iniziano un po’ a imbrogliare davvero. Eh sì. Prima di tutto, va precisato, come le didascalie in apertura del film puntualizzano, che si tratta di amatoriali riprese clandestine, illegali, non autorizzate che tantissime donne detenute nelle carceri cilene riescono a realizzare e poi a consegnare alla regista. Immagini rubate dunque, inaspettate in un certo qual modo, che hanno in parte dello straordinario. Eppure, anche rispetto a questi aspetti, ci si ritrova ancora seduti, come dire, un po’ comodamente sulle poltrone, data la consuetudine e la disponibilità come quasi l’assuefazione a recepire a braccia aperte sempre nuovi ed estremi confini della visione. In fondo non è qui che rintracciamo i segni forti di questo film. È nel suo portato emotivo che si tocca con mano il suo essere riuscito. Queste immagini ci vengono incontro come una sorta di radiografie di un sentire e patire interiore. Esse emergono (davvero efficace l’uso dell’animazione in sede di rielaborazione grafica delle scene) come “memorie dal sottosuolo” che acquistano lo status di un lungo “message in a bottle” in una permanente dissolvenza perché si è convinti che continuamente rischia la dispersione, l’abbandono, l’oblio. Lo si sa bene questo. Come lo sanno queste donne, queste madri che si ritrovano ancora più sole e isolate dietro le sbarre del carcere. Ed ecco che a un tratto, tra una messa a fuoco debolissima e un chiaro-scuro che confonde ancora di più i contorni, in un nero-bianco-sbiadito ci sembra di tornare come per magia nel ventre delle nostre madri, in quel liquido amniotico che ci permette di iniziare il nostro prendere forma non potendo far altro che prendere le mosse se non dall’informe. Abbondano poi le scene, sempre riprese dal cellulare, che riproducono lo sguardo di chi guarda dall’interno verso l’esterno. E la soglia, quella linea di confine invalicabile tra il dentro e il fuori della cella, diviene il reale teatro esistenziale di queste donne che il cinema permette di far vedere, dove ciò che è stato non può che bussare continuamente alla porta mentre si guarda in avanti al futuro con la sola certezza di un misero quotidiano.

Non è John Ford e nemmeno Sergio Leone. Non accade nulla, non si escogita alcuna strategia, e nemmeno la speranza fa sentire la propria presenza. È svanita anche l’attesa, ma chissà se forse c’è davvero mai stata la possibilità di costruirsi una possibile attesa dalla vita. Sembrano anime perse queste madri che s’agirano tra i meandri dei loro ricordi e un presente in cui i 365 giorni dell’anno sono tutti uguali, come le parole di un certo dialetto italiano che sono dolci e amare, nient’altro che sempre parole d’amore. Un martedì è identico a una domenica, il Capodanno può essere riferito a un anno qualsiasi, tanto cambia poco. E poi un altro dubbio ci assale alla fine del film. Forse queste immagini invitano anche a tornare a interrogarsi sul senso e sul significato di testimone che il cinema a suo modo tenta da tempo d’incarnare. Ovvero una delle grandi note questioni poste da Godard e dal suo lavoro. Chi scrive prova al massimo (se ci riesce) a porre una suggestione


Malqueridas – Regia: Tana Gilbert; Sceneggiatura: Tana Gilbert, Paula Castillo, Karina Sanchez, Javiera Velozo; Fotografia: Karina Sánchez e altre detenute in carcere; Montaggio: Javiera Velozo, Tana Gilbert; Suono: Carlo Sánchez, Janis Grossmann-Alhambra; Animazione: Fanny Leiva Torres; Interpreti: Karina Sánchez (se stessa) e altre detenute in carcere; Produzione: Paola Castillo (Errante), Dirk Manthey (Dirk Manthey Film); Origine: Cile/Germania, 2023; Durata: 74 minuti.

 

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