Co-fondatore nonché esponente della prima ora del movimento Dogma ’95 alla metà dei Novanta, Thomas Vinterberg (1969) vanta ormai una cospicua e varia filmografia, rimasta tutto sommato piuttosto fedele agli esordi, sia sul piano stilistico sia sul piano dei temi che sul quello dell’ambientazione, al netto di alcune incursioni hollywoodiane: Le forze del destino del 2003, Dear Wendy del 2005 e la trasposizione da Thomas Hardy Via dalla pazza folla del 2015 (http://www.close-up.it/via-dalla-pa…).
Al centro dell’opera di Vinterberg ci sono le complesse costellazioni famigliari, già dal suo primo e forse insuperato Festen (1998) fino ad arrivare a La comune (http://www.close-up.it/kollektivet-…) presentato a Berlino nel 2016, e al centro dei suoi film c’è molto spesso la Danimarca. E – di nuovo con le dovute eccezioni – continua, ancor più di von Trier, ad attenersi ad alcuni principi stilistici fondamentali di Dogma ’95, dai movimenti di macchina all’uso naturale della luce.
La sostanziale fedeltà del regista alla sua poetica è reiterata da questa ultima prova, candidata agli Oscar 2021 sia nella categoria del miglior film straniero (che ha vinto), sia – cosa non proprio frequente – nella categoria della miglior regia. Premiato in precedenza in ben quattro categorie degli European Film Awards nel dicembre 2020 (miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura, miglior interprete maschile a Mads Mikkelsen), il film si chiama in originale, seccamente, Druk , ossia l’equivalente di sbronzarsi, il titolo internazionale è invece Another Round mentre in italiano è Un altro giro, con cui esce nelle sale a partire da giovedì 20 maggio (ma era stato in anteprima al Festival di Roma del 2020).
Il film parte da due dati documentali imprescindibili: uno esplicitato e l’altro no. Quello esplicitato è la teoria di uno psichiatra norvegese, tal Finn Skårderud che esiste davvero, secondo la quale gli esseri umani sarebbero nati con una percentuale di alcol nel sangue troppo bassa e sarebbe dunque auspicabile tenere a un livello costante nel corso della giornata tale percentuale; quello non esplicitato ma risaputo è che la Danimarca è il paese europeo in cui si beve più alcool, già a partire dall’adolescenza, e l’alcolismo rappresenta a tutti gli effetti un problema, forse addirittura un’emergenza.
Da queste due premesse parte l’esperimento – che ricorda un po’ Il Grande Capo (2006) di Lars von Trier – di quattro amici/insegnanti di scuola, in piena mid life crisis, con le relazioni sociali e affettive (chi ne ha) piuttosto a pezzi e anche con un livello motivazionale, sul piano professionale, decisamente bassino, le loro lezioni non sono davvero granché e gli adolescenti, forse proprio quegli stessi adolescenti che per conto loro hanno già cominciato a fare uso di alcool nel tempo libero, sono piuttosto annoiati di dover assistere alle lezioni dei loro prof. L’esperimento ha un effetto decisamente positivo nella prima fase, non solo i diretti interessati ma tutto l’entourage sembra risentirne positivamente, le lezioni scolastiche divengono semplicemente brillantissime, amori un po’ stanchini si rivitalizzano. Evviva.
Ma poi, forse a causa della situazione “nazionale” di cui sopra, forse perché se un individuo, nell’insieme, non sta bene, non è certo questa la strada per risolvere i problemi (nessuno dei quattro insegnanti pare particolarmente dotato sul piano dell’introspezione e dell’autoanalisi), ecco che la situazione in un secondo momento precipita. La centralità del discorso nazionale pare evidentissima, per esempio nel repertorio che l’insegnante di musica fa studiare ai propri allievi: “In Denmark I was born”, suona in inglese il primo verso della canzone che devono imparare e quel verso pare che vada proprio letto in senso antifrastico, l’esser nato in Danimarca, per così dire, come maledizione – e anche qui viene di nuovo in mente Lars von Trier, segnatamente The Kingdom , potremmo anzi immaginare la scuola dei quattro protagonisti come un microcosmo para-ospedaliero.
Forse il film, a giudicarlo nell’insieme, è un po’ povero di elementi, poco vario, ma, come già ne La comune, Vinterberg è bravissimo a raccontare la coralità avvalendosi di ottimi attori, Mads Mikkelsen fra tutti, a cui il direttore della fotografia Sturla Brandth Grøvlen – celebre per il lunghissimo piano sequenza di Victoria (2015) di Sebastian Schipper (https://www.closeup-archivio.it/nuovo-articolo,10205) – dedica una lunga serie di primi piani che l’attore sostiene a meraviglia.