Venezia a Roma: Cloud di Kiyoshi Kurosawa

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La percezione di dove ci troviamo, prima ancora di comprendere chi siamo e cosa facciamo, sembra essere la questione al centro dell’ultimo film di Kiyoshi Kurosawa, anche se di centrato, nell’incubo paranoico e persecutorio dentro il quale cade progressivamente il protagonista  Ryōsuke (Masaki Suda), specializzato in compravendita on line di merce falsa con il nickname di Ratel, non c’è nessun elemento, che riguardi la dimensione esistenziale o quella spazio-temporale: ci troviamo in una Tokyo sempre più marginale, costituita dagli interni angusti di monolocali e bilocali oppure dagli spazi quasi metafisici e dispersivi di grandi aree industriali, dove gli oggetti transitano senza una precisa provenienza o collocazione, alla stregua dei corpi di coloro che ruotano intorno a questa formula upgrade senza rete di guadagno generata dall’economia neoliberista.

Non ci sono precise indicazioni di un tempo, se non di quello della contemporaneità smaterializzante e alienante, e ci sono vari indizi che costruiscono questa mappatura di controllato delirio e isolamento. In una delle prima sequenze Ryōsuke/Ratel, seduto nella stanza del suo ufficio-casa davanti allo schermo del suo computer dove ha appena caricato dei macchinari medici in offerta speciale sui prezzi di mercato, fissa nel silenzio le icone tutte uguale e tutte in file in attea di un sold out; ed è come se il suono fissato e ossessivo della sua mente che attende in catatonica passività il compiersi di quel business, coincidesse con i rumori elettronici, i segnali, le connessioni a vuoto della macchina nella accezione di software e di hardware, con lo smaterializzarsi dalla parte fisica nella eco impalpabile ed evanescente della dimensione virtuale. Un loop, un sottofondo, una nenia tecnocratica che da subito pone il dubbio dell’esserci e che continua a seguire il filo (in)visibile della poetica di lucida follia di Kurosawa.

In una delle sue opere più celebrate, Pulse (2001), le ombre/fantasmi/ologrammi, oppure le tre cose semanticamente e proiettivamente sovrapposte,  di un aldilà il cui limite è la sagoma su una parete, cercavano nel flusso costante del web una porta d’accesso alla realtà soverchiata fin nella più elementare divisione tra i vivi e i morti (stesso canale cercato delle anime maledette del Poltergeist-demoniache presenze di Tobe Hooper, 1982, seppur in caso con il più vetusto supporto del tubo catodico della TV). Gli uni e gli altri non sono però concepiti in un’ottica dialogante, o di convivenza in una sorta di regno neo cibernetico che affianca l’identità analogica a quella digitale.  Ogni distinzione è annullata, l’interazione tra qui e altrove, tra verità dello sguardo e simulazione dello schermo tende a trasformarsi in simbiosi, attaccamento, cupo rispecchiamento. Anche Cloud, che si riferisce allusivamente all’iCloud, vale a dire uno spazio extra, oltre, sopraelevato per il salvataggio e la conservazione dei dati, parte da un presupposto simile, ma rovescia la prospettiva, salvo poi farla convogliare nella stessa zona morta/viva di pulsioni e sovrastrutture. Quando Ryōsuke comincia ad essere perseguitato con vessazioni e avvertimenti  da probabili compratori delusi o ingannati che ne hanno rintracciato l’indirizzo reale, si è portati a pensare che possa trattarsi di un sottile delirio del ragazzo, insinuatosi tra le pieghe di un inconscio senso di colpa per la propria indifferenza ed egoismo (verso la propria compagna, il datore di lavoro, un amico disperato); ma è un dubbio, afferma Kurosawa, che non è quasi più rilevante; i commenti delle chat degli acquirenti sono parole che scorrono sotto gli occhi anestetizzati e storditi dell’uomo, cosi impossibilitato ad uscire da se stesso, peraltro totalmente assorbito dalla sua identità, da continuare a preoccuparsi per una partita di borse spacciate come originali  non ancora vendute anche di fronte alle sempre  più pressanti minacce di morte.

Nel tempo e nello spazio paralleli, in speculare movimento rispetto al processo di smaterializzazione/alienazione, si materializzano le persone in carne, ossa, bastoni, pistole e fucili, che braccano Ryōsuke fino al precario bunker-abitazione nella periferia liminare tra fabbriche in abbandono e natura selvaggia. A un certo punto inizia la caccia al Cane di paglia peckinpahniano, con tanto di uccisione, come avveniva nel film del 1971, del rappresentate del regole e del raziocinio (là lo sceriffo del villaggio, qui una guardia forestale). Ciò che cambia, in virulenza e insostenibilità alla visione, è probabilmente il senso della messa in scena, perché alla trasfigurazione iperrealista ed esasperata di Peckinpah, subentra uno scarto, un distanziamento, un campo che appare e scompare. Anche Masaki Suda, come Dustin Hoffman, diventa un assassino suo malgrado al termine di una lunga sequenza di potente tensione raffreddata, come se a un certo punto i personaggi si muovessero dentro la sequenza coordinata e coreografata di un videogame.

Probabilmente questo giovane uomo dall’aspetto anche piuttosto ordinario, che per tutta la durata della sua disavventura si chiede cosa e perché stia succedendo, non avrebbe in sé l’impulso violento di autoconservazione come il personaggio di Dustin Hoffman che lo porta ad uccidere quasi a mani nude i suoi bifolchi assalitori. L’unico modo allora è fare come se, sospendere la condizione di spettatore obnubilato e assuefatto del video e trasformarsi in attivo esecutore, sostenuto da eventi poco plausibili su un piano di verosimiglianza (anche di un videogioco, a dire il vero…) dove riesce a scamparla sul filo del rasoio di un massacro o di una tortura. E il ragazzino di provincia che assume come suo assistente quando si trasferisce fuori città, diventa da questo punto di vista la figura chiave da inserire in un racconto da action movie, con una soggiacente visione misantropa e misogina (ai limiti del cliché, l’odiosa e isterica fidanzata), riscattata da una conclusione che risolve nel fantastico del cloud/iClouds i corto circuiti delle colludenti realtà.

Kurosawa riesce come sempre a creare una rarefatta atmosfera di sospensione, la più ricettiva a indurre il suo protagonista a non credere all’improvvisa esplosione di brutalità contro di lui. Anche lo spettatore rimane con il fiato sospeso quasi senza rendersene conto, immerso in un liquido disgiunto dalla rassicurante e accogliente funzione amniotica. È l’appannamento della visuale che si presenta quando la retina oculare si brucia di fronte agli input visivi di un PC, a causa del quale non vediamo più la doppiezza di chi ci sta di fronte neanche quando è palese, come la mano che impugna la pistola nascosta dietro la schiena della compagna di Ryōsuke.

Caduta anche la maschera della manipolazione sentimentale, meglio allora rifugiarsi nell’espansione e dilatazione di una nuvola atmosferica, avendo presente il senso del vecchio adagio: “bisognerebbe possedere solo ciò che si può tenere sotto la pioggia”.

Prossima proiezione di “Venezia a Roma“: martedì 1 ottobre ore 16,30 Multisala Lux.


Cloud (Kuraudo) Regia e sceneggiatura: Kiyoshi Kurosawa;  fotografia: Hidenori Nagata; montaggio: Koichi Takahashi; musica: Shinji Watanabe; interpreti: Masaki Suda, Kotone Furukawa, Daiken Okudaira, Amane Okayama, Yoshiyoshi Arakawa; produttore: Masaya Nagayama, Kazuhiro Ota, Masato Usui, Takuya Matsumoto, Atsuyuki Igarashi; origine: Giappone, 2024; durata: 123 minuti; distribuzione: Minerva Pictures.

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