Vincent deve morire di Stéphan Castang

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L’onda lunga della pandemia, intesa come contagio e trasmissione di un morbo degenerante, ha lasciato profonde impronte come cicatrici sui corpi, nei cuori e nelle menti e in ciò di cui tutto questo è l’elaborazione e la sublimazione, ovvero il nostro immaginario. Vincent deve morire, opera prima del francese Stéphan Castang, cerca di far incrociare questi due aspetti, il cogente riferimento alla contemporaneità e la riflessione sullo sguardo, nell’ utilizzare, nel solco di un modo di fare film che guarda al coraggio e all’audacia degli anni’70, la struttura del cinema di genere.
Potrebbe definirsi un plot nel quale convergono l’action movie, la distopia e l’horror (e forse la commedia surreale) il viaggio allucinante compiuto da Vincent, anonimo impiegato di un’agenzia pubblicitaria, che si trova improvvisamente e senza preavviso ad essere aggredito da conoscenti e passanti che ne incrociano lo sguardo. Come nell’incipit di un’opera del periodo greco di Yorgos Lanthimos, il paradosso dell’incubo precipitato addosso al corpulento e apparentemente mansueto ragazzone non sembra avere ragioni o spiegazioni razionali, e uno psichiatra al quale Vincent si rivolge arriva addirittura a innestargli il dubbio che inconsciamente sia lui stesso a provocare i suoi occasionali assalitori.
Ma la verità è più apocalittica e comincia a riguardare tante persone, riconosciute e organizzate tra di loro anonimamente e via web in quello che rimanda a uno dei tanti siti complottisti di cui si è avuta e si continua ad avere una massiccia presenza (sotto)  traccia nell’ era e post era Covid.  Transitando in una dimensione più orrorifica,  la paranoia assume però una forma realistica e tangibile, e Vincent è costretto a fuggire e a nascondersi, braccato da un’umanità assetata istericamente di violenza e sangue (i soggetti prescelti vengono uccisi anche a mani nude) e costretto suo malgrado a mutare il segno della propria indole mite in quella di un permanente sopravvissuto in grado di ammazzare bestialmente un suo simile (c’è una scena di lotta in mezzo al fango e al letame inequivocabile, anche su un piano simbolico). Non siamo comunque in un contesto di dichiarato e rivendicato impegno politico, l’aspetto spettacolare rappresentato dalla sostenuta messa in scena e dal montaggio martellante  mantiene la tensione e l’attenzione alte lungo tutti i 155 minuti; una durata che in più punti rischia di sovrapporre la reiterazione dei gesti e delle situazioni, necessaria a comprendere l’esplosione di violenza reattiva di Vincent, con la ripetizione di un meccanismo ben congegnato ma eccessivamente dilatato.
Per non incorrere nell’ impasse del teorema da dimostrare, Castang introduce elementi che virano dal comico al grottesco al tragico, creando dei detour di racconto che allentano e riattivano in continuazione il ritmo.

Nel suo peregrinare di disperato evitamento  dal contatto visivo/relazionale con l’altro da sé , Vincent non potrà fare a meno di rimanere attratto da una simpatica e incasinata cameriera di un fast food, anch’ella però  soggetta al morbo della violenza omicida e con la quale, per avere un agognato rapporto sessuale, dovrà avvalersi di un paio di manette, usate senza nessun eccitante riferimento a un rituale sadomasochistico, ma per scongiurare la possibilità che l’amplesso non diventi letteralmente una piccola morte…Se questa combinazione genera un’inaspettata e tenera e ilarità, al contrario la figura dello svagato e pittoresco padre di Vincent, che si rifiuta di ospitare il figlio in fuga in quanto deve avere spazio per poter fare yoga con la sua nuova compagna, si trasforma in una maschera tragica nel momento in cui torna a descrivere l’aggressione e l’omicidio della donna, e la lenta discesa nella follia collettiva. Da questo punto di vista la regia acquista un’identità precisa  nel mettere in scena il rapporto tra ciò che è in campo e ciò che è fuori campo come sintomo della relazione tra delirio paranoide ed effettivo stato di allarme, tra l’evocazione della fine del mondo e la sua brutale e scarna manifestazione. Non è più solo un incubo individuale  consumato nei loculi stanza avulsi dalla realtà e inglobati dall’inconscio manipolato dalla fruizione social mediatica  (pensiamo al mantra psicotico di Coma di Bonello, sempre restando sul terreno di una trasfigurazione simbolica del contagio pandemico). C’è uno spazio aperto come una bomba ad orologeria, una burgessiana clockwork orange dentro la quale il caos distruttivo  si diffonde e prolifica; e la lunga sequenza dell’ingorgo, con tutti compulsivamente in fuga verso un altrove che non c’è (perché l’altrove resta l’altro davanti a te ed è una continua minaccia), ne è il climax costitutivo , il corto circuito tra ragione e istinto , tra dispersione e compressione. Le persone vogliono scappare, ma vogliono anche uccidersi, e non si capisce più chi sono le vittime e chi sono i carnefici. E la risonanza che tocca il nervo più scoperto rispetto alla recente esperienza di isolamento e di distanziamento che siamo stati costretti a fare è quella della negazione del contatto: se per il Covid si trattava del toccarsi le mani, in questo caso a far scattare la scintilla della malattia basta solo guardarsi negli occhi, un atto al quale è immediato collegare la visione negata, interrotta, condizionata. Per salvarsi reciprocamente, i personaggi possono infatti solo bendarsi o coprirsi la vista in qualsiasi maniera, l’unica pratica  che spegne l’ impulso omicida altrimenti lanciato sulla definitiva etero distruzione del soggetto.
Eppure non rimane la sensazione di aver assistito alla parata di un mondo senza pietà e senza compassione, all’ avanzare incessante e tenebroso de Il tempo dei lupi presagito in uno dei film più cupi e abissali di Michael Haneke, con la gente che si prendeva a fucilate per un tozzo di pane e un sorso d’acqua. La coppia di protagonisti che si innamora nonostante tutto possiede un tocco di simpatia e di speranza, che permette di fuggire e di veleggiare per le rive di un immaginario ormai diverso da quello pre contaggio, con l’amore che per farsi salvezza ha bisogno di essere performato e messo in gioco.
Una sorta di nascondino, di vedo-non vedo, che rivela quanta paura abbiamo avuto di guardarci/toccarci fino in fondo e di quanto in realtà ne sentiamo adesso la mancanza.

In sala dal 30 maggio


Vincent deve morire (Vincent doit mourir) –  Regia: Stéphan Castang; sceneggiatura: Mathieu Naert; fotografia: Manuel Dacosse; montaggio: Meloe Poilleve; musiche: John Kaced; interpreti: Karim Leklou, Vimala Pons,Francois Chattot, Michael Perez, Emmanuel Verite, Jean-Remi Chaize, Sebastiene Chabane; produzione: Thierry Lounas e Claire Bonnefoy per Capricci films; origine: Francia/ Belgio; durata: 108 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

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