Wild Men- Fuga dalla civiltà di Thomas Daneskov

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Che sia una crisi di mezza età o sindrome da burnout, fatto sta che Martin (interpretato alla grande del corpulento Rasmus Bjerg), passa il confine fra la Danimarca e la Norvegia e, letteralmente, si dà alla macchia, si mette addosso pelli di animali, si arma di un rudimentale arco e di frecce per abbattere gli animali (arco e frecce serviranno, serviranno), si costruisce una capanna e vive nei boschi, novello Robinson o per meglio dire adepto  fuori tempo massimo di Jean Jacques Rousseau, in fuga dalla civiltà (il titolo italiano, aggiunge all’originale danese, appunto, proprio questo sottotitolo, forse non necessario, Fuga dalla civiltà). Il problema è che il povero Martin, già per conto suo vittima di non poche contraddizioni (pur senza farne uso, si è portato dietro l’I-Phone, quando il cibo scarseggia proponendo un improbabile baratto, di fatto sferra un assalto a un autogrill per fare provviste) non viene lasciato in pace. In primo luogo il confine fra Danimarca e Norvegia è appetito anche da altri, da un trio, scalcagnato ed efferato a un tempo di narcotrafficanti, fra i quali spicca, per lo sviluppo del plot, l’immigrato Musa (Zaki Youssef), apparentemente unico sopravvissuto a un incidente stradale sulla strada verso il confine, che in quei boschi cerca rifugio insieme al borsone pieno di denaro, ciò che potrebbe dare inizio a un buddy movie, con solidarietà maschile in mezzo alla natura selvaggia, ma così non è; perché – in secondo luogo – l’incidente stradale, una serie di furti di auto, l’assalto all’autogrill hanno messo in moto, si fa per dire, gli indolenti poliziotti di confine, del tutto impreparati ad affrontare gli imprevisti, un poliziotto malinconico alle soglie della pensione (Bjørn Sundquist) e due più giovani, non certo abitati dal demone della missione civica di chi vuole a tutti i costi garantire la sicurezza dei cittadini. E poi – in terzo luogo – c’è Anne (Sofie Gråbøl), la moglie di Martin, che insieme alla figlie e a un coniglietto (anche lui in fuga dalla gabbia) lo cerca e non si spiega come mai da un giorno all’altro il marito sia sparito. Infine – in quarto luogo – i compagni del narcotrafficante sembravano morti.

Insomma quanto basta per creare una vicenda, a tratti divertentissima, a tratti drammatica situata a metà strada fra una certa ironia noir tipicamente scandinava (ci sono venuti in mente i film di Hans Petter Moland, fra tutti In ordine di sparizione del 2014, ma anche Lars von Trier, questa zona di confine, è proprio il caso di dirlo, fra grottesco e noir, le rivalità fra gli abitanti di questi paesi confinanti  fin dai tempi di The Kingdom la sa abitare benissimo) e coloro, che con tutta evidenza, costituiscono il vero modello del giovane regista danese Thomas Daneskov, ovvero i fratelli Coen, in particolare quelli di Fargo, la natura nordica, del resto, ci mette del suo.

Ammiccando a tanti e diversi generi, il film è al contempo un intelligente apologo sulla mascolinità in crisi, sulla difficoltà dei rapporti fra i generi, sul disagio nella/della civiltà, su verità e finzione, autenticità/inautenticità (la sequenza del finto villaggio vichingo è esilarante), dimostrazione a tratti palmare dell’adagio adorniano secondo cui non si dà vita vera nella falsa.

Il film presentato un anno e mezzo fa a New York al Tribeca Film Festival e già passato in un paio di festival italiani (Bari, Trento) inaugura una nuova e lodevole linea distributiva di I Wonder Pictures, intitolata Arthouse, dedicata al cinema d’autore europeo, una linea che salutiamo con grandi speranze.

In sala dal 20 ottobre


Vildmaend – Regia: Thomas Daneskov; sceneggiatura: Thomas Daneskov, Morten Pape; fotografia: Jonatan Rolf Mose; montaggio: Julius Krebs Damsbo; interpreti: Rasmus Bjerg (Martin), Zaki Youssef (Musa), Sofie Gråbøl (Anne), Bjørn Sundquist (Øvvind); produzione: Nordisk Film Spring;  origine: Danimarca 2021; durata: 104′; distribuzione: I Wonder Pictures – Arthouse

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