Rassegna Almodovar: “Corpi in prestito” (dal 10 giugno: cinque film restaurati del regista spagnolo di nuovo in sala)

Se lo scorso anno la retrospettiva che proponeva una prima sessione della filmografia di Pedro Almodovar si chiamava La forma del desiderio ( e comprendeva opere fino ai primi anni ’90: L’indiscreto fascino del peccato, Che cosa ho fatto io per meritare questo?, La legge del desiderio, Donne sull’orlo di una crisi di nervi e Tacchi a spillo),  quest’anno quella forma si è incarnata e si è fatta agito:  Corpi in prestito, così è stata titolata questa nuova ronde di proiezioni, cinque titoli restaurati e distribuiti sempre da CG Entertainment, si ispira direttamente al primo film che rispetta peraltro un percorso cronologico di questa ragionata retrospettiva a tappe: Kika, un corpo in prestito (1992) un’ opera audace e anticipatoria, e forse non pienamente capita o comunque spiazzante per una sempre più nutrita audience di critici e di pubblico che aveva cominciato a codificare un universo Almodovar, cercando di semplificarne o, ancor peggio, normalizzarne le prospettive perturbanti e le implicazioni politiche, la frammentazione dei punti di visa di fronte, anzi intorno,  al corpo transessuale e mutante dell’ immaginario cinematografico dopo la caduta ( delle ideologie, delle narrazioni , delle identità). Kika esce infatti fuori dal solco delle definizioni dentro le quali le opere di Pedro erano state contenute per arginarne l’esplosione pop di erotismo ed anarchia: non più, o non solo, la commedia grottesca con buñueliane insenature surrealiste o il melodramma/noir fiammeggiante di carni tremule e estasi di delitti; si impone un mix, talora fecondamente indigesto, di feroce denuncia della violenza perpetrata e incoraggiata dalla compulsione voyeuristica della nuova reality tv, e una parallela riflessione metalinguistica sempre più esplicita; nel caso specifico di Kika, il media di riferimento era ancora la televisione, presentata sotto le fattezze post umane di Andrea La Sfregiata, donna-videocamera grazie allo straordinario costume concepito da Jean-Paul Gautier, che non si limita a registrare e a filmare, ma è parte attiva nella costruzione di una serie di avvenimenti di violenza e omicidi seriali, l’apoteosi di un sensazionalismo allo stato sanguinolento di barbarie tecnologica. Perché in fondo il corpo in prestito è proprio quello di Kika, la procace e svampita protagonista che si presta, appunto, suo malgrado a farsi catalizzatrice di tensioni familiari, psicosi omicide e suicide, fino al punto di non ritorno di uno stupro parossistico posto come disturbante scarto tra simulazione e realtà, tra il rituale atto performante di un abuso ( con i padri/patriarchi e i loro figli che ne sono indifferenti o complici testimoni) e le conseguenze di una sofferenza e di una mortificazione oltre il cliché dell’immagine (lo stereotipo della protagonista, donna seduttiva e debordante , che rivendica di poter definire un limite rispetto alla violazione della propria fisicità).

Ed è da questo momento che lo sguardo almodovariano declina in una maniera più consapevole questo concetto di “prestito”,  servendosi dei doppi, degli alter ego, dei fantasmi, portati in scena su un palcoscenico mentale o materiale, nel minimalismo o nell’esagerazione. Tutti hanno bisogno di sublimare qualcosa: come Leo, autrice di romanzi rosa in incognito, ne Il fiore del mio segreto, che attraverso la riappropriazione anche indiretta della propria scrittura, restituisce uno spessore umano di relazioni, incontri, possibilità ad un’ esistenza svuotata dal tradimento e dall’ostilità del marito. Una dimensione più intimista, quasi un assolo di flamenco per una donna matura che non ha smesso di vibrare e che continua ad essere vettore di lacrime e carne tra l’immaginazione e la quotidianità.

Un intreccio che verrà esaltato al quadrato in Parla con lei, spostando il piano del racconto dal sillogismo tra testo letterario e testo filmico, ai piani di un guardarsi che si fa scintilla, contatto, nostalgia o desolazione. Non a caso la cornice che contiene, o fa esondare fino all’incredibile del paradosso, il menage tra Marco e Benigno e le loro comatose mujeres, la ballerina Alicia e la torera Lydia, è lo spettacolo Café Müller di Pina Bausch, di cui alcuni passaggi aprono e chiudono il film e nel quale la danza è un’ estenuante, ora compressa ed ora espansa, coreografia: il movimento di fluttuare verso e sbattere contro, tra la lucidità di un dolore più profondo di quello fisico e il tentativo ostinato di restare aggrappati alle pareti della propria memoria. E ognuno in Parla con lei cerca di lasciare un segno che da astratto e “fantasticato” si fa sempre più tangibile,  sull’altro: Benigno che si prende cura di Alicia e Marco che si prende cura di Lydia , e poi ancora Marco che si prende cura di Benigno e poi infine di Alicia …un rendez-vous di scambi nel corso del tempo e sulla linea di un orizzonte sempre più ampio (come le scritte che ci annunciano la formazione di una nuova coppia),  comunitario, accudente, solidale, seppure sotto il peso specifico della perdita e dello smarrimento.

Il cercare di essere altro da se è un processo che però può anche non avere nulla a che fare con il divenire ma sprofondare dentro gli schermi di identificazioni e proiezioni: La mala education, dove il ragionamento meta diventa completamente interno al cinema, cambia sentimento rispetto ad un’ambiguità che in Parla con lei si imprimeva nella volontà di comunicare e di comprendersi oltre il pregiudizio ( e che in Almodovar costeggia sempre la questione morale, senza risolvere le contraddizioni ma lasciandone scoperte e pulsanti le ferite): la struttura del thriller a incastro spazio/temporale e identitario, è il progressivo svelamento di una pantomima di manipolazioni, inganni e mascheramenti dei quali è vittima e che al tempo stesso alimenta il regista/sceneggiatore/produttore (come Almodovar) Enrique Goded. Nella riapparizione del suo primo amore di ragazzino nel collegio di preti, non vuole vedere infatti il body double di un inganno ma ingannarsi riconoscendo il compagno/testimone nella dolorosa e necessaria condivisione di un abuso pedofilo, l’atto fondante e scatenante di una spirale di sovrapposizioni e slittamenti percettivi; fino al finale senza fine di una condanna al rimpianto per aver creduto in un ricordo sostituito dal volto di un altro, e senza tralasciare il controcampo di un famelico ricatto ridotto a miseria e ossessione . E dopo un viaggio tanto abissale nelle oscure profondità e responsabilità anche del proprio ruolo di creatore di intrecci e di fabule, la necessità è quella di un ritorno letterale a casa. Ma la casa di Pedro non è il rewind a un’origine risolta e consolatoria,  perché il perturbante continua a soffiare forte e in direzione ostinata e contraria come il vento de La Mancia che soffia in Volver e riporta il passato ma, ancora una volta, ne scombina le direzioni, le combinazioni e le versioni.

l’energica Raimunda non ha la passività del regista/voyeur, non subisce il condizionamento/fascinazione   dell’atteggiamento scaramantico e delle  superstizioni del villaggio da cui proviene; il suo tornare, corpo a cuore, equivale a svelare la verità sulla madre, ma d’altro canto anche ad obliare il cadavere del compagno molestatore ucciso dalla figlia adolescente. Qui come non mai Almodovar ci dice una cosa: le donne hanno la forza di sostenere lo sguardo dritto sulle cose terribili e meravigliose che accadono e di rimetterle dentro il flusso che può interrompere e invertire il corso dell’aria che tira; e l’aspetto sensoriale e intuitivo è determinante nel restituire questa capacità di mandare in frantumi gli specchi deformanti o mistificanti di un incubo o di una idealizzazione.

 Anche se poi continueremo a credere che qualcuno, spettro immaginato o presenza in carne ed ossa che sia, si prenda segretamente cura di noi in quella indefinibile terra di confine tra il set, la sala cinematografica e l’enorme, imprevedibile fuori campo della vita.

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