A passo d’uomo di Denis Imbert

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Il viaggio nella duplice valenza di forma di conoscenza di quello che ci gira intorno e di dimensione spazio temporale sospesa nelle quale toccare talvolta le polarità della propria memoria è stato spesso al centro del racconto cinematografico. Ma Pierre, il protagonista di A passo d’uomo di Denis Imbert, non è colto nel momento selvaggio del desiderio di scoperta, attraversamento, affermazione di un’identità hic et nunc, a scapito magari della consapevolezza di una più precisa destinazione, di un orizzonte contemplato prima che esperito.

Siamo lontani insomma dalla Mona di Senza tetto né legge di Agnes Varda (1985) o del Christhopher di Into the wild- Nelle terre selvagge di Sean Penn ( 2009) che, pur muovendo il loro sguardo da una prospettiva scarna e realista come l’opera di Imbert (dal romanzo dello scrittore-esploratore  Sylvain Tesson) possedevano un’ altra età della vita : l’inchiesta semi documentaristica sulla vicenda di un ragazza francese vagabonda trovata morta (Varda) e il racconto autobiografico e anti epico  di un giovane uomo americano in fuga dal conformismo della società borghese, post edonista e post ideologica degli anni ’90 (anche lui ucciso, quasi herzoghianamente, da una rapporto con la natura tra esaltazione e mistificazione) travalicano la misura e gli argini di un percorso “a passo d’uomo”. Pierre infatti, interpretato da un redivivo Jean Dujardin che stavolta mette a frutto efficacemente la propria maschera di guascone sconfitto, è sopravvissuto alla propria intemperanza ed eccedenza (derivante forse più da una compulsiva onnipotenza egotica che da un percepito e consapevole tormento esistenziale) e fa i conti con un corpo diverso: scampata la morte da una rovinosa caduta per il vizio di scalare le facciate dei palazzi, spesso in stato di ubriachezza, come se fossero le pareti di una montagna, ne porta ora i segni sulle membra frantumate e ancora agonizzanti; ed è concentrato nella determinazione ad espiare questa colpa nei confronti di sé stesso ma anche dell’altro percepito nelle sue sembianze concrete e fantasmatiche (a cominciare da un parterre femminile di reiterate e un po’ patetiche conquiste da machismo nonchalance, con il buco nero di non essere stato abbastanza apprezzato da  una madre particolarmente sprezzante e giudicante).

Ripercorrere dunque gli amati e incontaminati luoghi della montagna, parafrasata e laicizzata nella sua catartica sacralità ( ridefinendone la visione del celebre film saggio degli anni ‘70 diretto da Alejandro Jodoroswki, La montagna sacra, appunto)  non solo a passo ma anche a “sentimento d’uomo” , significa per Pierre il work in progress di una catarsi forse impossibile e inesauribile. C’è da dire che già nel romanzo di partenza Tesson si era ispirato alle propria storia personale e dunque la scrittura si era prestata ad essere strumento di elaborazione e di bergmaniana immagine allo specchio, senza la presenza e la potenza rivelatrice di un elemento onirico e inconscio così devastante, ma con un’ immersione a capofitto nel flusso binario presente-passato dei ricordi.

Da questo punto di vista la regia di Imbert vorrebbe farsi quasi una sorta di thriller dell’anima, di investigazione dentro le ferite vivide e livide di un uomo maturo con determinate caratteristiche, in primis un disturbante narcisismo e individualismo molto tradizionali secondo la filosofia dei quali il paesaggio si riduce a specchio riportato ai minimi termini del proprio io in caduta libera.

La parte che meno convince, nel progredire di questa indagine, è però proprio la scelta di evitare di squarciare in profondità le fratture di un personaggio così ingombrante , quasi a non voler realmente seguire la via crucis compiuta da Pierre, e l’esposizione del suo duplice dolore fisico ed emotivo. A un certo punto c’è un’ adesione consolatoria , pur mai compiaciuta  nel costante (sotto) tono laconico, ma che tende a livellare le contraddizioni, a suturarne il possibile versamento di una sgradevolezza che non si fa mai tale, e che si chiude in un abbraccio, in una comprensione, nel ritrovarsi finanche con la propria sorella che incarna la presenza di qualcosa di rimosso, ridimensionato, rifiutato ( la famiglia, il femminile, il senso di colpa). E in questo caso la naturale  “simpatia” suscitata inevitabilmente da Dujardin , che pur tenta volenterosamente di scrollarsi la ridanciana espressione iconica e un po’ ottusa del divo del muto in crisi da pre sonoro coniata nel (sopravvalutatissimo) The Artist,  vuole forse spostare l’attenzione su un pensiero rassicurante; la considerazione che qualcuno avrebbe potuto esprimere osservando anche il personaggio autodistruttivo e alcolizzato interpretato da Ray Milland in Giorni perduti (capolavoro espressionista di mastro Billy Wilder sulle derivi e gli abissi delle dipendenze ): “sarebbe così un bravo ragazzo, se solo non bevesse…”.

Non c’è la necessità di mettere in discussione un contesto sociale e culturale, pur accennato con qualche efficace pennellata, dal quale il personaggio di Pierre, anche in quanto figura mediatica e pubblica,  è stato generato. Tutto rimane confinato e (in parte) risolto in un determinismo personale, nel voler uscire con le proprie forze e i propri sforzi dalla crisi che ormai tocca solo la strutturata e un po’ rigida ( per questo probabilmente tanta esposta a frantumarsi e a rompersi) identità di un uno (ben lontano dal pirandelliano nessuno e centomila). A onor del vero bisogna ammettere però il contrappasso di un ‘immagine finale di smarrimento e perdita dove la natura si riprende la propria (dis)misura, con il bisogno di controllare e la paura di andare in mille pezzi di Pierre che vengono finalmente lasciate in balia del vento e delle lacrime.

Forse , durante il suo percorso relativamente accidentato, lo avrebbe aiutato un incontro maggiormente radicale e sradicante come quello avuto, tornando a bomba, dal Chris di Into the Wild: un grande orso bruno che lo vede sfinito , si avvicina e lo sfiora senza toccarlo . Quasi una carezza rasente la morte e la vita, che restituisce il senso di un cammino dove l’unica impronta non è solo quella umana.

Probabilmente Pierre è troppo spezzato /frantumato per reggere il peso e insieme la leggerezza di un simile contatto. Meglio tonare a ciò che è avvenuto e non è modificabile, nelle sabbie mobili dei propri rimpianti, con la speranza di trovare dietro l’angolo un ulteriore rassicurazione.

In sala dal 19 ottobre


Sur les chemins noirRegia: Denis Imbert; sceneggiatura: Denis Imbert, Diastème, dal romanzo omonimo di Sylvain Tesson; fotografia: Magali Silvestre de Sacy; montaggio: Basile Belkhiri; musica: Wouter Dewit; interpreti: Jean Dujardin, Anny Duperey, Izia Higelin, Josephine Japy, Jonathan Zaccai, Dylan Robert; produzione: Radar Films; Apollo Films , Auvergne-Rhone-Alpes Cinema, JD Prod, Echo Studio, France 3 cinema, TF1 studio; origine: Francia, 2023; durata: 93 minuti; distribuzione: Wanted Cinema.

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