Belle di Mamoru Hosoda

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Ad ogni consumatore seriale di Anime è capitato, almeno una volta nella vita, di doversi confrontare con lo scetticismo dello spettatore cresciuto (quando va bene) a pane e Film Disney: dal “ma i cartoni non sono roba per bambini?” al “come fai a divertirti guardando quelle assurdità?”, dal “ti stai bevendo il cervello con quelle porcherie” fino all’immancabile “non è un po’ troppo violento per te, sei sicuro di star bene?”, ci siamo fatti strada nella giungla dei pareri non richiesti sfoderando una serafica quanto guglielmina indifferenza.

Abbiamo dunque continuato a nutrirci della tragica lucidità sprigionatasi da quelle immagini sussultanti, nonché a leggere i famosissimi fumetti al contrario. I nomi di Isao Takahata (Una tomba per le lucciole, 1998), Hideaki Anno (Neon Genesis Evangelion, 1995), Mamoru Oshii (Ghost in the Shell, 1995) o Satoshi Kon (Millennium Actress, 2001) ci hanno tenuto compagnia a lungo, mostrandoci un’altra strada verso il lato oscuro – ma anche le sponde più luminescenti – dell’umana esistenza.

Eppure, una volta consumatisi gli anni ’90, l’universo pare aver cambiato rotta: un buon 60% delle opere concepite dai Maestri sopra citati si trova nei migliori e più boriosi siti streaming, fra cui Mubi o Criterion Collection. E ai Festival del Cinema, il Giappone in versione per così dire animata sembra essere ormai del tutto sdoganato: un risultato che, fino ad ora e seppur con qualche eccezione, solo Hayao Miyazaki – il più europeo fra i registi nipponici – era riuscito a raggiungere.

Bene, e ora veniamo a noi – o meglio, a Mamoru Hosoda: l’abbiamo già intravisto a Cannes 2018 con Mirai, il film-pecora nera che per primo spodestò lo Studio Ghibli dal suo trono occidentale. Ma Hosoda-San, senza che noi ce ne rendessimo conto, ha fatto tanto altro, fra cui vale la pena citare l’epopea fantascientifica Summer Wars (2009) e La ragazza che saltava nel tempo (2006), sorta di sinfonia a incastri dal gusto tipicamente postmoderno eseguita al ritmo delle Variazioni Goldberg. Questo è un piccolo assaggio, giusto per lasciar intuire come la porta fra est e ovest si trovi talvolta più socchiusa che non sprangata. E ora veniamo all’ultimo lavoro del nostro Sensei.

Belle non è un titolo che risulti particolarmente intrigante per un degustatore di cosiddetti cartoni animati. Una rapida capatina su Wikipedia, e scopriamo che nemmeno la trama brilla per originalità: una ragazza ha perso la madre – succede in ogni manga degno di tale nome. La società giapponese è piena zeppa di orfani: adolescenti introversi, giovani adulti controvoglia e contronatura, fanciulli ancora imberbi popolano i licei, piantano le tende nel parco di Ueno, camminano chinando il capo fra viuzze in cui non passa mai nessuno. Anche Suzu è sola e abbandonata: il padre, unico superstite di un fatale pomeriggio sulle sponde del fiume Shimanto, nella prefettura di Kōchi, non sa come relazionarsi con una figlia divenuta un enigma. Pur possedendo una voce cristallina e una passione per il canto che potrebbe condurla fuori dalle mortifere esalazioni della sua città natale, la studentessa ha da anni tagliato il cordone ombelicale con la realtà esterna e vive ritirata come uno strano insetto rientrato nel proprio bozzolo.

Ma la protagonista non è l’unica a soffrire di questa bizzarra agorafobia: la sua migliore amica giudica la brulicante umanità scolastica con lo stesso sadico disprezzo di un bambino che tormenta il formicaio con la lente, mentre l’amico d’infanzia si aggira come un genitore-ombra ponendo strani quesiti – del tipo: “come stai? Hai mangiato oggi? Com’è andata a lezione?”, insomma non esattamente quello che ci aspetteremmo dal bel tenebroso che vorremmo al nostro fianco fino alla fine della canonica avventura ginnasiale. Non mancano, del resto, nemmeno l’appariscente e irraggiungibile reginetta della classe o lo sportivo incallito dalle mille nevrosi. Questo scenario americaneggiante, però, non rappresenta che la superficie della pellicola, una sorta di specchietto per allodole e/o platee che dell’ovest conservano un’idea molto vaga (noi compresi!).

Incapaci di sopportare la bigia quotidianità circostante, i teenager si rintanano su U, una specie di miscuglio schizofrenico fra un Social Network e un Videogioco, una dimensione parallela in cui ognuno possa incarnare la versione migliore (o peggiore) di sé stesso. E poi entra in scena un’orrenda “bestia”, pronta a minacciare il sacro ordine telematico. Fin qui nulla di nuovo, conosciamo a memoria tutte le puntate di Black Mirror. Ma Hosoda-San allestisce un multiverso incredibilmente variegato e in men che non si dica ci ritroviamo palleggiati di limbo in limbo, senza riuscire a comprendere chi-va-a-far-cosa-dove-e-perché. La trama si rapprende in un gomitolo di aspettative e ipotesi che, spesso e volentieri, vengono lasciate aperte, insoddisfatte, sospese nell’eterno condizionale in cui si articola il Web.

L’epilogo non sorprende e al contempo sorprende, i nodi vengono al pettine e non possiamo fare a meno di provare una certa gratitudine per l’autore di questo stralunato viaggio all’interno di un Giappone non sempre facilmente leggibile. U ricorda, per certi versi, l’Aburaya spiritista costruita da Miyazaki al centro della sua Città incantata, ma possiede l’umanità necessaria per ricongiungersi al mondo convenzionale tanto disprezzato da Suzu e i suoi amici.

Anche in questo, Belle si emancipa dallo Studio Ghibli: lungi dal creare incantesimi, il regista si limita a patinare la verità con una glassa fluorescente capace di rendere il reale più reale di quanto già non appaia, indicando allo spettatore più piccolo la via verso l’età adulta e il suo sereno equilibrio. A discapito dell’ennesimo parere non richiesto, secondo cui “gli anime non sono adatti ai ragazzini”.

In sala dal 17 marzo


Cast & Credits

(Belle); Regia: Mamoru Hosoda; sceneggiatura: Mamoru Hosoda; interpreti: Suzu Naito / Belle  (Kaho Nakamura), Dragon / Kei (Takeru Satoh), padre di Suzu (Kōji Yakusho), Hiroka “Hiro-chan” Betsuyaku (Lilas Ikuta), Shinobu “Shinobu-kun” Hisatake (Ryō Narita), Shinjiro “Kamishin” Chikami (Shōta Sometani), Ruka “Ruka-chan” Watanabe (Tina Tamashiro); produzione: Studio Chizu; origine: Giappone 2021; durata: 124’.

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