Ad accoglierci nella Sardegna di Salvatore Mereu è sempre un silenzio spettrale, come se da un momento all’altro qualche vecchia divinità ormai dimenticata emergesse fra le ombre dei colli, fra i rivoli assetati, fra il grano crepitante di metà estate. È proprio dal grano, infatti, che il regista intesse la sua tela, soffermandosi sui campi in fiamme e sulle notti senza fine già immortalate in Assandira. Tratto dall’omonimo romanzo di Giulio Angioini, il lungometraggio ottenne il plauso della critica a Venezia 77, trasportando sulle sponde del Lido un’Italia contadina e pericolante, i cui ultimi esponenti paiono condannati ad un’imminente estinzione. Impossibile, dunque, non rincorrere i fantasmi di Costantino (un allora imperscrutabile Gavino Ledda) e dei suoi familiari, brutalmente spazzati via da un incendio che sembra non spegnersi mai: e così, a due anni di distanza dall’esordio alla travagliata Biennale 2020, Mereu ritorna in Laguna – ma questa volta, lo fa quasi in sordina, preferendo un palcoscenico più discreto.
Unico film italiano in Concorso alle veneziane Giornate degli autori, Bentu – ora anche in sala – nasce dalla collaborazione fra il regista e alcuni studenti dell’Università di Cagliari specializzatisi in Produzione Multimediale. Abbiamo l’impressione che l’atmosfera taciturna e rarefatta da cui la pellicola è pervasa sia in realtà il frutto di una nuova dimensione creativa, più intima e viscerale rispetto alla precedente – una dimensione a cui Mereu e i suoi giovani colleghi danno vita addentrandosi nelle loro stesse fantasie cinematografiche.
Le quali, diciamolo una volta per tutte, fantasie non sono: se la storia assomiglia moltissimo a quella di Assandira, la sceneggiatura esibisce un volto più scarnificato, dolente, sobrio, spesso trincerandosi in un mutismo dai tratti criptici. Sarà che, per tornare alle origini, è necessario fare un passo indietro. Sarà che ad essere trasposto su grande schermo non è più un romanzo, bensì un racconto breve di Antonio Cossu. Sarà la fotografia di Francesco Piras, tutta rivolta verso la luce o verso il buio – in Bentu non esistono vie di mezzo: o è notte o è pieno giorno. In ogni caso, la cinepresa si muove tanto più lentamente quanto più refrattaria si fa la parola, come se la natura e i suoi cicli non avessero bisogno di alcuna parafrasi umana.
L’opera nasce da una novella, e nella novella rimane: le immagini si limitano a tradurre il testo senza alterarne il sapiente minimalismo. La trama procede in linea retta, rimanendo ancorata ad una quotidianità oscura e lontanissima ma, a nostra insaputa, ancora viva e palpitante. Raffaele (l’ex attore fanciullo Peppeddu Cuccu, di cui ci ricordiamo per Banditi a Orgosolo) è un anziano agricoltore dall’epidermide d’acciaio, una sorta di Ulisse invecchiato ma, a differenza dell’originale, divenuto più saggio e meno inquieto. L’uomo abita in una minuscola dimora in campagna, attendendo (invano?) che il vento s’alzi e lo aiuti a mietere il grano, nonché a separare i chicchi dagli steli. Ma il vento non arriva. I giorni passano: la solitudine, accompagnata da una calma innaturale quanto ingombrante, acquista misure elefantiache. Ma Raffaele non si arrende, e fa la guardia alle sue Colonne d’Ercole, ultima sponda di un mondo destinato alla morte.
Poi qualcosa cambia: dal vicino Paese, dove le macchine ormai imperversano e le mietitrebbie rigurgitano fieno, giunge il nipote Angelino (Giovanni Porcu). Si tratta di un ragazzo come tanti altri, un Lucignolo frettoloso e selvaggio, dalle tasche bucate e dal cuore buono. I due iniziano a cercare il vento scomparso, e lo fanno frugando dappertutto: fra i pozzi in cui il latte raffredda, ad esempio, oppure fra i rivoli inariditi in cui ancora sguazza qualche anguilla. Ma il vento non arriva, all’orizzonte trottano solo enormi trebbiatrici che sembrano pronte a fagocitare la terra intera. Raffaele fischietta e talvolta bofonchia qualcosa contro l’America, responsabile d’aver predato, masticato e risputato mezzo pianeta solo per trarne grotteschi gingilli. Angelino, invece, ha una sola ambizione: quella di poter, un giorno, montare la cavalla che lo zio tiene nel suo capanno. Ma, per una simile creatura, il fanciullo è ancora troppo piccolo. Cresciuto in città, affascinato dall’idea di un futuro altro, il bambino sa a malapena legare le briglie al proprio asinello.
La Sardegna di Mereu è tutta racchiusa in quel desiderio proibito, nell’immagine perturbante e al contempo familiare di un destriero che pascola in mezzo a un campo. Non si sa quando arriverà il vento, così come non si possono prevedere gli innumerevoli va e vieni di un animale selvatico. Ogni tentativo di addomesticamento è inutile: in tal senso, il regista e la sua troupe parlano il linguaggio laconico e moraleggiante di certi aneddoti antichi, che per essere trasmessi di bocca in bocca hanno bisogno di vocaboli esili, e non d’inutili orpelli. Il film, di conseguenza, utilizza un alfabeto fatto di allegorie che non trovano corrispettivi nell’italiano standard – non a caso, i personaggi si esprimono soltanto in dialetto. E in dialetto si esprime il loro universo, o meglio, il bentu ‘onu che ne regola i ritmi. Che soffia dentro e fuori i fienili. Che bruca il grano e prende senza razziare. E al quale nessuno potrà mai mettere le redini.
In sala dal 15 settembre
Cast & Credits
Bentu – Regia: Salvatore Mereu; sceneggiatura: Salvatore Mereu; fotografia: Francesco Piras; montaggio: Andrea Lotta, Salvatore Mereu; interpreti: Peppeddu Cuccu (Raffaele), Giovanni Porcu (Angelino); produzione: Viacolvento; origine: Italia 2022; durata: 70’; distribuzione: Viacolvento e Artex Film.