In un bianco e nero in questo periodo un po’ abusato, C’mon C’mon segue due personaggi tra loro pressoché sconosciuti, accostati dai casi della vita, Johnny (Joaquin Phoenix) e Jesse (Woody Norman), zio e nipote, il primo stropicciato autore radiofonico coinvolto in un progetto di audio documentario sui giovani americani, il secondo un ragazzino di nove anni particolarmente sveglio e mattacchione, lasciato da Viv (Gaby Hoffmann), la madre, al parente più prossimo, suo fratello Johnny, mentre lei va a San Francisco a prendersi cura del padre del bambino, con serie problematiche psichiche.
I due viaggeranno per gli Stati Uniti da Los Angeles (dove vivono ragazzo e madre) a Detroit, poi New York, poi New Orleans e ritorno. La stranezza del piccolo spiazza più volte lo zio disabituato a dinamiche infantili non lineari (non ha figli, è tristemente separato, non si sa se ne abbia mai desiderati): Jess di sera, prima di addormentarsi, vuole giocare all’orfano, parla di sé come se non avesse genitori in vita, inventa modalità di rapporto distorte come fossero normali. Ma è un ragazzo amabile, solare, che si appassiona subito alle apparecchiature foniche dello zio per cogliere i suoni del mondo: inforca le cuffie e, microfono alla mano, resta in silenzio minuti a registrare la natura delle onde del mare, il passaggio di un treno della metropolitana da sotto un ponte, il passaggio dei gabbiani, il cicaleccio umano del parco.
La relazione tra i due è obbligatoria e immediata: dalla sera alla mattina la madre si allontana lasciando tre fogli di appunti su come gestire il figlio. I due imparano le misure un po’ alla volta, annusandosi, litigando, finendo più notti a dormire insieme nello stesso letto. Johnny, quando si trova in difficoltà, fa ricorso a siti internet che consigliano come chiedere scusa a un bambino, come gestirne la rabbia o la delusione, come addormentarlo. Due volte l’adulto, per disattenzione, perde il ragazzino mentre stanno in giro, in città, tra i mille pericoli della strada. Va nel panico nel supermercato, va nel panico nel quartiere: la madre lo rassicura che anche con lei fa così, è regolare, così a volte fanno i piccoli per chiedere attenzione. Johnny la sera gli legge Il mago di Oz, ogni tanto, in emergenza, viene sostituito dalla madre che continua la lettura a distanza con il viva voce.
Il film (che era stato presentato in anteprima italiana alla scorsa Festa del Cinema di Roma) cammina dritto, non esce dal seminato, non vira, non deborda: il padre del bambino viene ricoverato, poi sta meglio ed esce; la madre resta lontana più a lungo del previsto; zio e bambino imparano l’uno dall’altro, trovano un piano di comunicazione comune, scherzano e giocano, si affezionano sinceramente. In maniera lineare, aderente alla prevedibilità dell’esistenza, la storia procede da Los Angeles a Los Angeles, meglio di ciò che si poteva desumere viste le premesse individuali dei due protagonisti.
Lo stile di regia alterna piani del presente a piani del passato: ricordi della madre di Johnny e Viv sul letto di morte, con i due figli intorno volenterosi di aiutarla ma con approcci totalmente differenti (ecco la causa della distanza tra i due, ragione per la quale lo zio non conosce bene il nipote e il ragazzo non lo ricorda neppure); momenti in cui il padre bipolare esaltato gioca col piccolo in maniera troppo esuberante; le crisi dell’uomo, la difficoltà della donna di gestire il tutto.
Johnny confessa al telefono alla sorella: “Stare con Jess e lavorare, contemporaneamente, è troppo”. E Viv ridendo: “Benvenuto nel mondo delle madri dove si sbaglia sempre ma è normale”. Con grande naturalezza i due attori, Joachim Phoenix e Woody Norman, abbracciano i ruoli con una disinvoltura difficile da trovare nelle pellicole interpretate da minorenni (legge non scritta del cinema: non esiste nulla di più difficile che far recitare bambini e animali, peggio che mai insieme). Intrigante l’uso del suono: interpolato da fuori campo, mixato con le interviste ai ragazzi sul mondo e sul loro futuro, tappeti sonori differenti dalle scene visive. Il titolo deriva da una registrazione in solitaria del bambino che incita lo zio ad andare avanti, nonostante una tristezza di fondo che il ragazzo ha subito colto e, in parte, squadernato.
Il regista Mike Mills, anche autore della sceneggiatura, ha una passione per i legami familiari: nel suo secondo lungometraggio, Beginners (2010), raccontava la scoperta da parte del figlio (Ewan McGregor) della omosessualità tardiva del padre (uno splendido Christopher Plummer); in Le donne della mia vita (2016) gestiva un complesso rapporto tra una madre single (Annette Bening) e un figlio adolescente (Lucas Jade Zumann) negli anni Settanta in California nella casa dei due trasformata in una comune.
Divertente, a tratti commovente, realistico, piacevole. Forse solo per un pubblico di genitori. Forse.
In sala dal 7 aprile
C’mon C’mon – Regia e sceneggiatura: Mike Mills; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jennifer Vecchiarello; musica: Aaron Dessner, Bryce Dessner; interpreti: Joaquin Phoenix, Gaby Hoffmann, Woody Norman, Scoot McNairy, Molly Webster, Jaboukie Young-White; produzione: A24, Bran Creative; origine: Stati Uniti, 2021; durata: 108’; distribuzione: Notorius Pictures.