Dahomey di Mati Diop (Festival di Berlino – Concorso) – Orso d’oro

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Siamo stati spettatori del bello e convincente Atlantique che uscì nel 2019, e dunque siamo entrati in sala, questa volta, con ancora più adrenalina del solito, in attesa che le luci dell’immenso auditorium del “Berlinale Palast” venissero spente. Non perché vi fossero poi chissà quali aspettative speciali, ma in verità ci ha guidati l’idea che Diop non solo sappia fare bene cinema (il che vuol dire soprattutto domandarsi perché realizzare proprio quel film, quale sia la sua necessità, il suo bisogno), ma soprattutto che i suoi lavori sono inzuppati coscientemente del nostro oggi. E così ha realizzato questo suo ultimo film: Dahomey. Per l’occasione, Diop sceglie la forma-documentario, senza però rinunciare (come è evidente nel suo film di finzione precedente) ad atmosfere onorico-immaginative che qui rendono la realtà ancora più concreta, invece di astrarla. Il punto di partenza attraverso cui il racconto si dipana è la Storia, in verità un fatto storico che ha segnato i rapporti tra la Francia e la Repubblica del Benin.

Dahomey prende spunto dalla restituzione, avvenuta nel 2021 da parte del governo francese, di appena 26 (su oltre ben 7.000) tesori d’arte appartenenti al regno che fu di Dahomey, divenuto oggi la Repubblica dell’Africa occidentale del Benin. Depredati dalle truppe coloniali francesi nel 1892, i reperti artistici risalgono in particolare ai periodi delle dinastie di re Ghezo (1818-1858), re Glèlè (1858-1889) e re Béhanzin (1889-1894), ultimo sovrano indipendente del Dahomey che poi entrò a far parte dell’impero coloniale francese dal 1895. Tra questi tesori e beni archeologici ritornano a casa statue, troni reali e porte intagliate, realizzati in legno, metallo e fibre che vengono sapientemente e accuratamente imballati e preparati per il trasporto dal “Musée du Quai Branly” a Parigi alla capitale di Cotonou in Benin. Fin qui, sembrerebbe che ci scrive stia descrivendo un documentario d’archeologia, utile semmai a conoscere oggi come da un continente a un altro si muovono le opere d’arte, alla volta di rinnovate possibilità espositive, oppure a ripensare “l’utilità e il danno della storia per la vita”. Nulla di tutto questo alberga il film di Diop. Sin dall’inizio, queste statue “prendono coscienza” del loro nuovo viaggio, raccontando subito di quello più datato compiuto di più di un secolo fa che fu per molti decenni è rimasto solo d’andata. È come se lo spirito degli antenati s’incarnasse nei materiali degli antichi manufatti e prendesse parola. Già questa doppia esperienza tra antico e presente produce straniamento allo spettatore, che di colpo è condotto in quell’atroce antro in cui si è andata svolgendo la storia della colonizzazione europea in Africa, che solo pochi autori, come ad esempio Haile Gerima (si pensi ai suoi Sankofa, 1993 e Teza, 2008), sono stati capaci di portare sullo schermo in maniera forse più sana possibile. In una parola: trance. Ebbene, sì, questo è lo stato d’animo dello spirito che anima i reperti. Ma in fondo anche dello spettatore. Probabilmente qui è racchiuso uno degli intenti di Diop. Dietro un apparente e semplice atto politico, se si vuole dovuto da parte dei francesi, al di là dell’opportunità o meno di una “specie di ricompensa”, il ritorno in patria dei 26 reperti trafugati e la loro mostra espositiva significano inevitabilmente riaprire il vaso di Pandora di quanto tutto ciò che è stato il colonialismo non sia per nulla risolto. In filosofia si direbbe: è la questione fondamentale che dobbiamo sempre affrontare. E si sa, le questioni fondamentali non hanno soluzioni a senso unico. È qui racchiuso interamente il lavoro di Diop.

Le riprese negli spazi dell’Università del Benin, dove studentesse e studenti dibattono animatamente sul senso e significato di questa operazione politica e culturale, è il cuore di tutto il film. Anche la regista non propone il suo punto di vista, ma è capace con profitto di esprimere quello di tutti i protagonisti, soprattutto della nuova come della vecchia generazione che grazie alla mostra s’incontrano. Ciò che è storico non risiede nelle statue in sé o nel loro rimpatrio, ma in quello che producono, nell’effetto sotto forma di un interrogativo di massa che porta in potenza (anche in atto si spera) una grande opportunità di ripensamento. In tutto quello che è il viaggio a ritroso di questi tesori, sì spaziale ma anche temporale, Diop ci vede materiale filmico da fermare in immagini: questo ci convince molto. Ma non si limita a provare a farci vedere la sostanza dell’evento. Non dimentica Diop infatti la Natura dell’Africa, che viene sublimata in sequenze dove si apprezzano, per un attimo, i colori delle piante e dei fiori, gli effetti di luce sull’acqua abbondante in quelle zone, che fanno pensare e immaginare ancora possibile un’osmosi tra uomo e natura, uno scambio metamorfico disinteressato all’insegna della quiete, dell’armonia dei mondi possibili, dell’equilibrio tra logica ed estetica. Le ultime “parole” non possono che essere quelle dello spirito incarnato. L’illuminazione del museo viene spenta e torna la notte. È l’oblio che mette molta paura, la rimozione ancora di più. Questo paventa lo spirito, ora (finalmente?) a casa, che si ritorni al sonno “umano troppo umano” della quotidianità dei nostri tempi. In fondo, sembrano dire le statue, “noi oggetti siamo”, al massimo segni simbolici, nulla più. E, concludendo queste brevi suggestioni, sembra ritornare alla memoria la voce fuori campo del finale di Appunti per un’Orestiade africana (1970) di Pier Paolo Pasolini. “Ebbene, la conclusione ultima non c’è. È sospesa. Una nuova nazione è nata, e i suoi problemi sono infiniti. Ma i problemi non si risolvono, si vivono. E la vita è lenta. Il procedere verso il futuro non ha soluzioni di continuità. Il lavoro di un popolo non conosce né retorica né indugi. Il suo futuro è nella sua ansia di futuro. E la sua ansia è una grande pazienza”. Non solo di una nazione e di un popolo: ma dell’umanità intera, su cui tanto si può dire ma certamente che non è esonerata da questo compito.


Dahomey –  Regia e sceneggiatura: Mati Diop; fotografia: Josephine Drouin Viallard; montaggio: Gabriel Gonzalez; musica: Wally Badarou, Dean Blunt; interpreti: cittadini e autorità politiche del Benin; produzione: Les Films du Bal (Paris), Fanta Sy (Ngor) in coproduzione con  Arte France Cinéma (Paris); Origine: Francia/ Senegal/ Benin, 2024; Durata: 67 minuti.

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