Small Things Like These di Tim Mielants (Festival di Berlino – Concorso/Film di apertura) – Orso d’argento per la Miglior Interpretazione – Non protagonista

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Almeno due film importanti, tutti e due casualmente presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, si sono occupati di un’autentica piaga sociale, di cui si è resa colpevole la chiesa cattolica con la connivenza della Repubblica d’Irlanda. La piaga sociale è quella delle Case Magdalene (in inglese Magdalene Asylum o anche, vedi sotto, Magdalene Laundries), conventi nei quali venivano accolte ragazze «cadute», ragazze madri con o senza i neonati, ragazze orfane, ragazze che avevano subito violenza carnale. Peccato che lungi da trovare protezione e accoglienza da parte delle suore, le ragazze nella “migliore” delle ipotesi venivano schiavizzate, per l’appunto lavoravano nelle lavanderie fino allo stremo, di cui all’altro titolo, nella peggiore rinchiuse senza alcuna possibilità non dico di fuga ma neanche di una passeggiata fuori dal recinto, in alcuni casi brutalmente uccise, con o senza i loro bambini. Una vicenda terribile, di cui solo in tempi molto recenti si sono scoperte le agghiaccianti dimensioni, di cui fuori tempo massimo lo Stato irlandese ha inteso scusarsi. Quanto alla Chiesa Cattolica, si prega di ripassare.

I film importanti a cui mi riferivo sono Magdalene di Peter Mullan che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 2002 e Philomena di Stephen Frears del 2013 (4 nomination agli Oscar, e premi vari fra cui il David di Donatello al regista).

Ci sono vicende storiche talmente inaudite per le quali si ha come la sensazione che sia impossibile esaurirne la portata, su cui appare necessario a più riprese tornare, sia perché si pensa, giustamente, che vi siano sempre nuove prospettive dalle quali raccontarle, circoscrivendo  ciò che fino in fondo raccontabile non è, l’Inaudito resta Inaudito (l’esempio più vistoso, ineludibile è ovviamente la Shoah), sia perché è importante che l’orrore resti vivo nella memoria collettiva, anche a beneficio delle generazioni più giovani che, magari, non sanno o i testi precedenti non hanno fatto in tempo a leggerli, a vederli, ascoltarli (fra le prime a occuparsi di quest’orrore, nel 1994, c’è la grandissima Joni Mitchell che compone The Magdalene Laundries)

All’incirca dieci anni dopo il film di Frears, arriva a inaugurare la 74esima Berlinale un altro film sull’orribile scandalo irlandese, s’intitola Small Things Like These diretto da Tim Mielants (regista fiammingo del 1979) ed è tratto da una, verrebbe da chiamarla, novella di circa 100 pagine della scrittrice irlandese Claire Keegan che l’ha pubblicata nel 2022, arrivando fino alla short list del Booker Prize (in Italia è uscita da Einaudi). Si parlava di nuove prospettive; ebbene non c’è dubbio che la scrittrice una prospettiva nuova e originale ha saputo trovarla, anzi inventarla, come ha detto a più riprese: è la prospettiva di Bill, il titolare di una piccola azienda che vende carbone nella cittadina di New Ross, ottomila abitanti, pochi chilometri da Cork.

Bill, orfano di padre, è stato accolto insieme alla madre, non già in uno dei quei tremendi conventi, ma da una signora benestante che impietosita dal destino della ragazza madre e del neonato ha deciso di offrire loro ospitalità e una vita più che decente. Adesso Bill, in grazia della sua operosità, si è appunto messo in proprio, ha costruito una famiglia (moglie e cinque figlie femmine che, come dire, basterebbe un qualche accidente o deragliamento e potrebbero finire in uno di quei famigerati istituti). Bill è una bravissima persona, gran lavoratore, soccorrevole, gentile, anche se taciturno e forse leggermente incline alla depressione, prova ne sia che spesso si sveglia nel cuore della notte, quasi ci fosse qualcosa che lo arrovella o, se vogliamo, quasi che, malgrado tutto, i traumi patiti nell’infanzia (soprattutto l’assenza del padre) non siano ancora stati superati. Insomma, le piccole cose di cui al titolo che, ne è ben consapevole, dovrebbero renderlo felice, di fatto non riescono a farlo – e Bill lo sa e in qualche misura se lo dice.

Dopodiché, in occasione di una consegna di carbone nel famigerato istituto, scopre il mondo che si nasconde dietro quelle recinzioni – e l’inquietudine che già l’attanagliava adesso letteralmente dilaga, senza che né la moglie, né altre persone con cui si confida mostrino chissà quale comprensione, anzi Bill viene esplicitamente invitato a non curarsi di quel che avviene dietro le mura del convento. Un consiglio che Bill non seguirà decidendo di aiutare, almeno, una ragazza a fuggire e le “small things” diventano di fatto questo gesto nient’affatto “small” di solidarietà, questo rifiuto dell’omertà, che gli fa compiere un’azione in fondo molto simile a quella di cui aveva potuto trarre giovamento, a suo tempo, la madre e lui stesso.

Vi sarete accorti che fin qui ho parlato della novella e non del film. C’è una ragione per questa scelta: perché il film è, alla lettera, identico alla novella, fin nei più minuscoli dettagli; eppure quanto la novella è drammatica e soave, approfondita ma anche ritmata, tanto il film risulta noioso, ripetitivo, quasi claustrofobico, malgrado Cillian Murphy sia un ottimo interprete del personaggio di Bill e lo sguardo di Emily Watson nel ruolo della madre superiora sia a dir poco luciferino. Un raffronto articolato fra novella e film ben si presterebbe a un’analisi di sistema che, ovviamente, qui non farò. Mi limito ad accennare ad alcuni aspetti. Il primo e più importante è senz’altro la difficoltà ontologica di trasportare al cinema un narratore particolarmente capace di entrare nei dubbi e nei trasalimenti del personaggio principale, senza ricorrere alla voce off. Il regista questi trasalimenti ce li comunica attraverso moltissimi primi piani, Murphy che spessissimo abbassa gli occhi, i suoi silenzi, ma nella novella quei silenzi erano, per l’appunto, accompagnati da pensieri e riflessioni che qui spariscono finendo per impoverire il film. I pensieri e i ricordi di Bill si trasformano nel film in flashback, ma al terzo flashback, peraltro non particolarmente fantasioso, lo spettatore si è rotto le scatole. Anche il molto spazio dedicato, con immagini spesso ad alta densità poetica, alla natura (il fiume, le strade innevate, le cornacchie ) il regista prova a riproporlo nel film, ma l’esito non è lo stesso. I formalisti russi avrebbero detto: il piano della denotazione (la fabula) è in questo film  presente, quello della connotazione invece no. E, nella novella di Keegan, il piano connotativo è importantissimo.

Insomma: ancora una volta il concorso della Berlinale apre con un film che non resterà nella memoria collettiva (per trovarne uno memorabile, bisogna andare parecchio indietro, forse Grand Budapest Hotel nel 2014?). Se tuttavia esso potrà contribuire a mantenere viva in quella medesima memoria collettiva, gli orrori irlandesi, ne sarà comunque valsa la pena.


Small Things Like These – Regia: Tim Mielants; sceneggiatura: Enda Walsh, tratto dall’omonimo romanzo di Claire Keegan; fotografia: Frank Van den Eeden; montaggio: Alain Dessauvage; interpreti: Cilian Murphy (Bill Furlong), Eileen Walsh (Eileen Furlong), Michelle Fairley (Mrs. Wilson), Emily Watson (suor Mary), Claire Dunne (suor Carmel), Helen Behan (Mrs. Kehoe); produzione: Big Things Films, Wilder Content; origine: Irlanda/Belgio, 2024; durata: 96 minuti.

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