Una madre che cerca di riavere i propri figli. Un uomo che tenta di riconquistare il proprio amore perduto. Sembrano gli incipit per due melodrammi paralleli, negli altrettanti, molteplici mondi che li presuppongono e che potrebbero non incontrarsi mai, oppure collassare l’uno sull’altro, esasperati dal gigantismo e dalla cassa di risonanza del rancore e del rimpianto; sono invece, andando all’osso, le motivazioni che innescano il movimento al quadrato e alimentano il memorabile, inedito scontro tra il Doctor Strange e la versione alterata e malvagia di Wanda Maximoff (da recuperare la miniserie Tv a lei dedicata, Wanda Vision,dove c’è una riflessione tra messa in scena e verità, vita vissuta e vita immaginata, materialità e ologramma, che contiene suggestioni da The Truman Show di Peter Weir, i sottovalutati Pleasantville di Gary Ross e The Majestic di Frank Darabont, fino ad arrivare al Lynch di Twin Peaks ). Sono i due antagonisti Marvel di Doctor Strange nel multiverso della follia, nuovo capitolo cinematografico dell’inesauribile saga sui supereroi creati fumettisticamente da Stan Lee e Steve Dito: un titolo già letteralmente delirante e sopra le righe, che annuncia una variante avventurosa e picaresca tra il caos non sense e brulicante di Hellzappopin’ e l’immersione acida e stratificata di Alice nel paese delle meraviglie.
Si tratta dell’episodio numero due dedicato al personaggio di Steven Strange, fascinoso, arrogante e ironico, ma capace di esprimere una tenerezza e una fragilità che ne fanno il corpo cinema più eloquente di questa ormai consolidata e rifondata epica dell’ eroe, a prescindere dal franchise di riferimento: si pensi a tutti i Batman, gli Spiderman, i Superman e i James Bond degli ultimi vent’anni, sgretolati dalle nevrosi e dalla precarietà dell’individuo contemporaneo nella loro integrità di uomini d’acciaio, per i quali non è (o non dovrebbe essere) mai tempo di morire o di tornare a casa.
Doctor Strange, nomen omen di un’ identità non velata da pseudonimo o alter ego, porta sin dalla sua genesi una crasi tra modernità e antichità, tra la lucidità e l’esattezza un po’ asettiche della scienza e l’indeterminatezza e il mistero della magia: all’inizio infatti è un neurochirurgo geniale e spavaldo fino all’onnipotenza che, in seguito ad un incidente da cui sopravvive per miracolo e rimane quasi menomato agli arti superiori, per curarsi oltre i limiti della medicina occidentale, parte per Katmandu, nel profondo Nepal,e arriva al tempio di Kamat-Taj; e come nel viaggio di ogni eroe, dall’archetipo omerico in poi, scopre qualcosa di più di quello che stava cercando, ovvero la consapevolezza ancestrale di un potere che gli permette di agire sulla materia, sullo spazio e sul tempo.
Il precedente film diretto da Scott Derrickson appariva come un labirinto intrigante all’interno di questo specifico universo Marvel, uno e multiplo, con il secondo fattore che viene costantemente riportato al primo, a un controllo, una solidità, una direzione unica per non smarrirsi tra i binari già frastagliati del racconto, nonostante l’invito che il personaggio dell’Antico, lo stregone supremo di Kamat-Taj, fa a Strange di abbandonarsi al proprio destino per entrare in contatto con le sue capacità.
Con una scelta più audace e autoriale, la regia è stata invece affidata questa volta a Sam Raimi, che dopo quasi dieci anni torna ad imprimere nuovamente la sua prospettiva unica e irripetibile su un immaginario già codificato e introiettato: nel 2013 si era trattato de Il grande e potente Oz, ma ancora prima c’era stata l’imprescindibile, originaria trilogia di Spiderman e nel remoto e analogico 1990 quella che è stata una possibile genesi ante litteram di tutte le successive visioni e revisioni: parliamo di Darkman, in cui romanticismo e cupezza, corruttibilità della carne e assolutezza del sentimento, un po’ cronenberghianamente, gettavano le fondamenta all’epoca non digitali per una nuova estetica e poetica del fanta-horror. Se volessimo usare come metafora lo sling ring, l’anello con cui Doctor Strange crea dei vortici per annullare le distanze e le direzioni spazio-temporali, potemmo dire che Raimi ha portato il multiverso Marvel dentro il suo universo di segni e riferimenti, generando una commistione che produce a sua volta un godimento in grado di conquistare anche il non cultore della mitologia marveliana, perché è la potenza immaginifica e primordiale scaturita dallo sguardo a ipnotizzare, come la vertigine a spirale del soffitto del tempio Sanctum Sanctorum di New York custodito da Strange. Il quale può difendere e salvare il mondo dalla furia compensativa di Wanda/Scarlett Witch, ma non riesce comunque a chiudere il cerchio del suo amore per Christine, mancata sposa in un universo e compagna di lotta nell’altro. Dal canto suo Wanda si fa Medea del suo doppio in un altro universo per riappropriarsi dei figli mentali e non uterini, aggiornando all’era della società delle immagini la psicosi dell’eroina tragica di Eschilo.
Il collegamento non è solo nei corti circuiti interni al multiverso, dove in fin dei conti potremmo orientarci rievocando il senso di appartenenza all’immaginario di un inconscio collettivo espanso, fin nei titoli di testa, che sono sempre gli stessi nei film Marvel, ovvero lo scorrere rapido delle rappresentazioni grafiche passate, presenti e future di tutti i supereroi che amiamo e conosciamo, come se la grande mano degli Studios stesse sfogliando le pagine di una memoria che ormai si è eternizzata nell’ immutabilità di un database virtuale, sostituendola a quella quasi svanita nel logoramento ingiallito del fumetto cartaceo, tattile e deperibile.
Sam Raimi fa incontrare e convergere gli universi paralleli della sua ispirazione, recupera il mood dell’essenza artigianale dei suoi primi horror e ne fa un upgrade testosteronico ma creativo di effetti speciali, fino a far vedere la dimensione più intima e viscerale, e di conseguenza più universale e riconoscibile, di personaggi condannati alla sentenza fine mai di una condizione straordinaria, il dilaniante mélo tra lo scegliere il se stesso martire per la salvezza dell’umanità o il proprio doppio domestico che rimbocca le coperte ai figli: la mdp si muove infrangendo l’illusione di una quarta parete all’inverso e ritorno, con zoomate avanti e indietro sugli occhi di Strange e Wanda, come se fossero la sottile linea rossa o la porta d’oro tra pulsioni, desideri e pensieri interiori e la loro manifestazione nello spazio esterno.
Il multiverso raimiano non richiede esclusivamente una visione in orizzontale dunque, non dobbiamo stare attenti solo a quello che entra ed esce da un lato all’altro dell’inquadratura; c’è una verticalità, un tuffarsi nella profondità lacustre di un doppio sogno/incubo schnitlzeriano (e poi triplo, quadruplo, …), dove eccitazione e paura, attrazione e repulsione, sono il retaggio e il debito più evidente con l’anima horror dell’ autore de La casa: da questo punto di vista, il personaggio di America Chavez, la ragazzina dagli incontrollabili superpoteri bramati da Wanda e difesa a oltranza da Strange e gli adepti di Kamat-Taj, è il nucleo del sentimento estetico che suscita la visione appassionata e partecipe: è lei, in grado di aprire e attraversare le porte tra gli tutti gli universi paralleli, a rendere possibile, in quanto vedibile, ogni immaginario alternativo, e prima del topico processo di consapevolezza di sé grazie alla paternale guida di Strange (unico, inevitabile tributo alla morale consolatoria ed edificante del new deal disneyano), questa pratica è inconsciamente indotta da uno stato di forte stress e paura, a cui soggiace a sua volta il desiderio di sapere/vedere. Un’ Alice prima che si imbatta nel Es dopato del Bianconiglio, oppure Arianna che si perde nel labirinto del Minotauro come se si trovasse nella stanza buia dell’ester egg del videogioco risolutivo di Ready Player One, capolavoro spielberghiano sulla proliferazione di identità e immaginari Avatar tra virtuale e reale.
Anche se per tornare ad una poetica più affine a Sam Raimi, dovremmo guardare con gli occhi di Clarice Starling ne Il silenzio degli innocenti e penetrare/squarciare con lei la tana dei mostri (l’ingresso in soggettiva nelle cella/ grotta di Hannibal Lecter, un altro “dottore”, cattivo maestro del lato oscuro dello sguardo…). La paura non mangia più, fassbinderiamente, l’anima, ma divora pezzi di visione su mondi alternativi che si allargano e si restringono secondo una relatività percettiva non appesantita dall’impianto teorico della saga Matrix o di Inception (opera chirurgica e devastante sull’affondo inconscio-sogno-immagine).
Vengono più in mente le fangose e plastiche frammentazioni, mutazioni e mutilazioni de L’armata delle tenebre, di cui c’è proprio una citazione esplicita nel tourbillon della battaglia finale, e la sensazione tridimensionale, anche senza il 3D, che ogni colore, suono e perfino nota musicale scritta su uno spartito possano animarsi e assumere la consistenza di un colpo mortale o salvifico. Perché un occhio, ci mostra Raimi, può essere un mostro che vuole catturarci e ucciderci, ma anche la terza via al culto laico e profanatore dell’atto di vedere e immaginare.
In sala dal 4 maggio
Doctor Strange nel multiverso della follia (Doctor Strange in the multiverse of madness) – Regia: Sam Raimi; soggetto: Stan Lee, Steve Ditko (fumetto); sceneggiatura: Michael Waldron; fotografia: John Mathieson; montaggio: Bob Murawski, Tia Nolan; interpreti: Benedict Cumberbatch, Elizabeth Olsen, Rachel McAdams, Chiwetel Ejiofor, Xochitl Gomez,Benedict Wong; produzione: Kevin Feige per Marvel Studios; origine: USA, 2022; durata: 127’; distribuzione: Walt Disney Pictures.