Elvis di Baz Luhrmann

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Come se ci trovassimo ad assistere ad un rutilante, caotico trailer di un film in divenire, l’Elvis di Baz Luhrmann si presenta fin dall’incipit sotto le spoglie di un circo altmaniano attraversato da fantasmi, rimorsi, eccessi, momenti epici e struggenti sulla messa in scena della costruzione di un’identità tra pubblico e privato, rappresentazione ed essenza, destrutturata fino al collasso. Ci viene mostrato fin da subito chi è  il narratore di una storia che crediamo di conoscere tutti nella sua sovraesposizione iconica e mitologica, quella di Elvis Aaron Presley (Tupelo, 8 gennaio 1935 – Memphis, 16 agosto 1977).  È il colonnello Tom Parker, millantatore apolide e ineffabile che, proprio attraverso il circo e il sottobosco dei  freaks che lo popolavano, scopre il talento debordante, sensuale e selvaggio del primo Elvis  – una bomba a orologeria  nella controllatissima e puritana America degli anni ’50, scalpitante nelle sue retrovie di una rabbia giovane che sarebbe definitivamente esplosa nel decennio successivo – e ne diventa non solo il manager e il mentore, ma anche la madre putativa (dopo la morte precoce, per alcoolismo, di quella biologica e affettiva), il ventre dal quale è stato generato il figlio di un nuova forma della società dello spettacolo; il catalizzatore delle necessità non solo di una generazione di Rebel without a cause, ma anche di un interno popolo in vibrante attesa dell’avvento, grazie all’onnipresenza dello schermo televisivo (altro segno determinante nel making off del personaggio ), di un messia profanatore dei limiti del corpo e della voce, soprattutto nella contaminazione tra country e blues e nel focalizzare l’attenzione sulla potenza archetipica, dinamica e spirituale della musica nera contro la rigidità imbalsamata e repressiva delle istituzioni e della politica statunitensi, durante la lunga estate calda delle tensioni razziali e sociali.

Ma proprio la scelta compiuta da Luhrmann di far aprire e chiudere una delle più emblematiche parabole sullo star system, con tutto quello che c’è in mezzo tra  A star is born e Sunset boulevard, dalle parole di una figura ambigua e enigmatica come Tom Parker, mostrata nel faccione del grottesco trucco prostetico dietro il quale si riconosce il volto incantato dell’ex Forrest Gump  Tom Hanks (chi non ricorda che fu proprio lui ad insegnare ad Elvis il famoso gioco di gambe nel film di Robert Zemeckis?), innesca un processo di rivelazione al contrario. Dalla frenetica pluralità dei punti di vista e delle angolazioni dell’inizio, si ritorna, nella mimetica ricostruzione delle esaltanti ed estenuanti performance dal vivo, all’ Eden di un immaginario di romantica e commovente celebrazione, dove tutto – fisicità, colori, spazio, volumi sonori –  è espanso fino a diventare più grande della vita.

La pista del racconto inchiesta per comprendere il mistero Elvis e le ragioni che ne fecero un fuoco così grande e così alto da estinguersi  in un tempo così breve (a soli 42 ani), quasi per autoconsunzione, è presto abbandonata in favore di una chiave di musical/mélo più consona alle corde del suo autore dove, rispetto alle precedenti rielaborazioni post moderne di tragedie adattate dal teatro e dalla letteratura (lo Shakespeare fremente e appassionato di Romeo + Giulietta e poi lo Scott Fiztgerald de Il grande Gatsby, che Luhrmann fa sembrare quasi un seguito maturo e autunnale), è la questione della verità ad invadere il campo semantico e ad amplificarne la portata immaginifica, ad aumentare il peso specifico di ogni significato e significante; il colonnello Parker narra la sua versione dei fatti dalla sala delle slot machine di un casinò ricostruito all’interno di un set virtuale e spettrale,  proiezione di un senso di colpa (l’ossessione per il gioco d’azzardo che lo portò a spremere fino all’ultima goccia di sudore il potenziale commerciale di Elvis), ma anche dematerializzazione di un mondo terminale, emerso dal passato come il rimpianto di un rapporto fondato sulla manipolazione e sullo sfruttamento.

Una cornice lugubre e mortifera contraddetta dalla presenza viva e pulsionale dell’inedito Austin Butler che, in un crescendo di tensioni e falsi movimenti che diventano sempre più veri, si dà anima e soprattutto corpo al ruolo della vita e riempie le immagini flamboyantes di Luhrmann, già di per sé cosi generose di dècors, dettagli e figure. Nonostante la stragrande maggioranza dei filmati su Elvis siano arrivati tramite il flusso di quello che arcaicamente veniva definito il tubo catodico, questo film impone la necessità della dimensione cinema per Elvis, a partire dalla campeggiante e regale dicitura del titolo, nome proprio assurto a simbolo di una riconoscibilità universale come un Dio ricostruito nel puzzle di un culto laico composto da tanti ex voto rielaborati dalla cultura pop e digitale (imprescindibili i titoli di testa e di coda).

E c’è una volontà di restituire, oltre la dimensione assoluta e mitizzata del gesto performativo, una zona intima e privata di fragilità e tenerezza, un Romeo o un Gatsby spogliati dalle vestigia subliminali della scrittura, e riportati non solo alla stessa, impalpabile sostanza di cui sono fatti i sogni, per parafrasare sempre Shakespeare, ma anche a quella carnale e purulenta di ferite narcisistiche  senza più consolazioni o alibi.

La sovraesposizione, la continua reiterazione dell’atto di apparire su un palcoscenico, sono la condanna fine mai (e forse la vera responsabilità di Parker secondo Luhrmann) per Elvis che, sacrificando l’essere all’apparire, non può che recidere ogni relazione non proiettiva o non speculare; perfino il rapporto autentico e innocente con Priscilla , l’amica –complice-moglie con cui cerca di elaborare un irrisolto complesso edipico, si interrompe quando l’Elvis della decadenza degli anni ’70, quello intrappolato nelle torri d’avorio dei grandi hotels di Las Vegas, comincia a ricercare il proprio riflesso vanaglorioso negli occhi, nei baci e negli abbracci famelici e anonimi di un pubblico che stava cominciando a divorare i propri cari e familiari beniamini; il passaggio dall’idolatria del culto domestico alla consumazione rituale e collettiva su un palcoscenico di derive travestite da approdi. Una perdita di contatto con l’altro da sé, un perdersi nell’altrove di una camera obscura (titolo di un emblematico album di Nico, cantautrice la cui vicenda artistica e umana potrebbe essere  la stampa in negativo di una polaroid scattata allo scintillante mondo elvisiano) , all’interno della quale può emergere solo la luce blue elettrico di tre televisori accesi , il recinto in cui il sistema e i suoi emissari  volevano addomesticarlo a cantore di un suprematismo bianco e che Elvis aveva sempre cercato di abbattere a colpi di anca e di good vibrations.

Ma anche questa desolazione e questa amarezza si diluiscono nel tempo dilatato di una fine che non si esaurisce ma raddoppia nello slittamento percettivo tra il Butler della ricostruzione filmica ed l’Elvis dei filmati d’epoca:  un passaggio di testimone per continuare a emozionarsi nell’infinito loop delle note di una canzone o, meglio, nel sentimento di lancinante verità di chi le interpreta come una dedica , un commiato, una possibilità: unchained melody, una melodia libera.

In sala dal 22 giugno


ElvisRegia: Baz Luhrmann ; sceneggiatura: Baz Luhrmann, Sam Bromell, Craig Pearce, Jeremy Doner fotografia: Mandy Walker; montaggio: Matt Villa, Jonathan Redmond; musica: Elliott Wheeler ; interpreti: Austin Butler, Chaydon Jay, Tom Hanks , Helen Thomson ,Richard Roxburgh, Olivia DeJonge, Luke Bracey ,Natasha Bassett, David Wenham ,Kelvin Harrison Jr.,Xavier Samuel, Kodi Smit-McPhee; produzione: Baz Luhrmann, Gail Berman, Catherine Martin, Patrick McCormick, Andrew Mittman, Schuyler Weiss; origine: USA , 2022; durata:  105′; distribuzione: Warner Bros.

 

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