Uomini in marcia di Peter Marcias

  • Voto
3.5

Non è facile scrivere di questo bellissimo film-documentario, firmato da Peter Marcias (con alle spalle, tra gli altri, già due altrettanti lavori del medesimo genere che ci hanno davvero molto convinto: Liliana Cavani, una donna nel cinema, 2010, e Nilde Iotti, il tempo delle donne, 2020). Ah, quanto disincanto diffuso fanno vivere queste sue scene, quanto lavoro ancora da fare mettono in evidenza. Ci lascia infatti un po’ senza parole, sospesi quasi il flusso delle immagini montate in quest’opera, sia quelle d’archivio e di repertorio che quelle filmate oggi dal regista, soprattutto sotto forma d’interviste e di esterni di alcuni paesaggi italiani.

Sì, perché il materiale e la sostanza del film sono prima di tutto composti dai corpi stessi dei protagonisti: quelli delle numerose generazioni di operai che nel corso di oltre 100 anni si sono avvicendati nel lavoro delle miniere e delle fabbriche minerarie del territorio del Sulcis-Iglesiente. Ma partiamo da una coincidenza che così ci permette di rompere il ghiaccio. Uomini in marcia, il titolo del film – Marcias, il cognome del regista. Hanno dell’incredibile a volte le convergenze delle lettere e dei significa(n)ti delle parole che tra loro s’associano. Nello specifico, la marcia qui in questione è quella dei lavoratori sardi che intrapresero nel 1992 per rivendicare il loro posto di lavoro, ormai andante sempre più in dissolvenza. Eppure, quella marcia diventa iconica e simbolica di tutte le lotte sindacali di sempre, in Italia come altrove. Essere in marcia qui vuol dire essere in movimento (come il cinema, tra l’altro), far proseguire il cammino ai diritti dei lavoratori nel corso del tempo, attraverso i pur naturali cambiamenti socio-politici ed economici delle nostre società sempre in fieri. Emerge in modo credibile una forte convinzione: le conquiste d’allora, fra tutte l’entrata in vigore nel 1970 dello statuto dei lavoratori, al massimo hanno segnato la via di un percorso che non conosce difatti traguardo o metà. Bensì queste non possono che ripresentarsi o dovrebbe ripresentarsi oggi come rinnovata spinta propulsiva per guardare in avanti, cercando da un lato di non pensare di poter vivere ancora di rendita, dall’altro di studiare in profondità questi nostri tempi contemporanei al fine di non farsi trovare impreparati alle complessità che albergano soprattutto il mondo del lavoro. Tuttavia, tutto ciò è già strategia, è già progetto (in ciò è straordinario davvero il cameo pieno di mature consapevolezze del grande Ken Loach), è già in un certo qual modo previsione.

Ken Loach sul set del film. Foto di Simone Ruggiu

Ma c’è bisogno ancora di digerire e assimilare ciò che è stato. Ed ecco qui quei volti degli operai, di un tempo lontano come di un recentissimo passato, che in dignitoso e muto silenzio stanno lì davanti allo schermo proprio battendo terra, “in movimento marciante”, nelle immagini stupende di questo documentario a severamente sorvegliarci, quasi come nostri diretti antenati. C’è una sensazione di perenne gioventù nel vedere le espressioni dei corpi di questi operai in Italia (ma in fondo di qualsiasi nazione come in qualsiasi passaggio decisivo del secolo scorso). È come se tutte le esperienze dei lavoratori, dal 1917 a oggi, attraversassero il tempo storico per presentarsi, in ogni presente dato di volta in volta, attuali nel loro portato carico di modernità. È un serbatoio, è un bagaglio, fonte di civiltà e orgoglio che rimane vivo in maniera pregnante, come la “poetica della candela” di fronte al “resto di niente” della politica e del politico in generale. (A tal proposito, ci viene di colpo in mente la figura di Mario Tronti, da poco scomparso, che ricordando Enrico Berlinguer in un lontano 2014, in occasione dell’anniversario della scomparsa del segretario non dimenticato del partito comunista, parlò della non banale differenza tra personalità e personaggio in politica). Mentre, invece, come lo stesso Laurent Cantet esprime nell’intervista, le riprese che mostrano le rovine, anzi meglio le macerie degli impianti industriali lasciati in dismissione e quindi abbandonati (come le miniere sarde del Sulcis) producono percezioni, soprattutto alle nuove generazioni, di rimozione, di rifiuto, di cancellazione di tutto ciò che è stato e che fa parte di un antico che nemmeno si ha intenzione di capire.

Ciò vale proprio anche già a livello puramente visivo rispetto squarci paesaggistici che intanto permangono e quasi si vorrebbero portare a disintegrazione. Come nel celebre finale di Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. E forse in questa ipotetica immagine pensata di una fabbrica ferma da tempo che salta in aria non c’è neppure più l’odio di una generazione X, ma appena un forte senso di disillusione e disinganno che produce soltanto un’aspettativa vuota, senza più teleologia. E allora quale fiducia, soprattutto quale speranza per dirla con Mario Monicelli. Bah. In fondo, Jacques Derrida lo aveva scritto in uno dei suoi ultimi saggi (Spettri di Marx del 1993): quello che probabilmente mancherà alle nuove generazioni, nate e cresciute in tempi che non si possono più chiamare neanche post-moderni, è l’idea di avere in comune “qualcuno o qualcosa”. Ciò sarebbe, alle soglie del terzo millennio, definitivamente perso, diceva Derrida.

E chissà se poi non aveva ragione da vendere già all’epoca il filosofo franco-algerino. “Temevo – dice Peter Marcias in una nota di lavorazione del film – di realizzare un saggio, invece mi pare di no: è stato un pretesto per studiare e andare avanti nel mio lavoro. La storia va sempre tenuta in considerazione, perché il futuro va affrontato con grande consapevolezza”. È ciò che ha temuto anche chi scrive, con in aggiunta, se è permesso, della sola convinzione secondo cui non c’è mai per il mondo umano immagine senza pensiero, figura senza discorso, sentimento senza ragione.

Presentato in anteprima alla Festa di di Roma 2023 (Special Screenings)
In sala dal 1 giugno 2024


Uomini in marcia  – Regia e sceneggiatura: Peter Marcias; fotografia: Simone Ruggiu; montaggio: Fabrizio Federico; musica: Cristian Carrara; interpreti: Gianni Loy, Laurent Cantet, Ken Loach, Peppino La Rosa, Bruno Saba, Giampaolo Puddu, Salvatore Cherchi, Antonello Pirotto, Antonello Cabras; produzione: Ganesh Produzioni, Ultima Onda Produzioni, AAMOD Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura, Morgana Studio, con il sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission; produttori esecutivi: Agnese Ricchi, Mario Mazzarotto; origine: Italia, 2023; durata: 75 minuti; distribuzione: Notorious Pictures.

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