Il libro delle soluzioni di Michel Gondry

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Se il cinema di Michel Gondry ha insegnato qualcosa a generazioni di cinefili persi tra le macerie post ideologiche e post esistenziali del proprio, sopravvissuto immaginario (non a casa il suo esordio dall’eloquente titolo Human nature, già amara commedia romantica di identità scambiate, fraintese, reinventate, risale a quel deflagrante 2001 di eventi dal portato abissale e definitivo, dal G8 all’11 settembre) è stata proprio quella di tornare a una dimensione materica e sensoriale della creatività. Il libro delle soluzioni, il suo ultimo film, potrebbe essere da questo punto di vista una sorta di memorandum su come la crisi, declinata in tutte le sue forme, possa essere affrontata  in una serie di passaggi  senza soluzione di continuità dai limiti/possibilità del corpo a quelli della fantasia. E al centro di questo processo stavolta c’è proprio il fautore di microcosmi e scenari dell’immaginazione, il regista il cui senso dell’operato, per come lo intende Gondry, è espresso più precisamente dalle parole francesi: metteur en scéne o realisateur, nelle accezioni che includono un aspetto di fattualità e concretezza; una visione del mondo tradotta in una plausibile, abitabile realtà, dove lo scarto rispetto alla sua effettiva realizzazione è la pietra d’inciampo dell’essenza onirica e carnale di ogni artista.

Marc, interpretato da un ispirato Pierre Niney che riesce a farsi cartoonesco e tridimensionale, stralunato e sensuale, è appunto “il regista in crisi”, messo all’angolo dai produttori che si attendono un tipo di film e che invece se ne trovano di fronte un altro (lo slittamento semantico tra aspettativa e risultato rimane il MacGuffin, sia metalinguistico che narrativo, per eccellenza di Gondry). A questa pressione Marc,  evidente (auto) ironico alter ego del vero Michel  fin dalle sembianze e dagli atteggiamenti tardo adolescenziali di uomo in reverse, risponde con la fuga che è anche un ritorno ad un’origine casalinga e ridotta, in scala, del fare e del creare. Portandosi dietro buona parte dei suoi collaboratori e in particolare la scettica montatrice per poter ricostruire il film in modo da trovare un equilibrio tra la sua visione e le esigenze della controparte (alle quali si aggiunge pure il pubblico che dell’opera di Marc e del suo personaggio ha fatto un’ icona, un totem, un marchio) si  trasferisce in campagna dalla paziente e accudente zia Denise. Quest’ultima ha il volto segnato ma sempre meraviglioso di Francoise Lebrun, interprete di uno straziante film stream of consciousness, La maman et le putain, dove Jean Eustache metteva in discussione e in abisso le icone e i totem nientemeno che della Nouvelle Vague.

Ed è il limite imposto da quella situazione di emergenza e di necessità che riattiva in Marc non tanto la capacità quanto il desiderio di trovare le famigerate soluzioni che non esistono e non sono mai esistite, come viene mostrato ad un certo punto in maniera trasparente e testuale.  Il libro che Marc aveva concepito da ragazzino e che ritrova nella sua artigianale e ben curata impaginazione e copertina è, di fatto, solo un titolo  oltre il quale non era mai riuscito ad andare avanti e a farne un formulario o un sistema; e, nonostante i buoni propositi del nuovo corso degli  avvenimenti, resterà un diario sul quale appuntare l’unica possibile soluzione. Il metodo sembra essere infatti la riflessione sul metodo stesso, lo stare, o il tentativo di stare, nel fallimento, nella frustrazione, nell’incomunicabilità  con le persone, a cominciare da quelle più vicine.

Marc è a tutti gli effetti un ossessivo paranoico che, un po’ infantilmente, cerca alleanze e rassicurazioni (in maniera sfacciatamente edipica tutte le figure chiave sono impersonate  da donne) e Gondry  lo rappresenta senza veli e senza alibi, anche nel proiettarne una probabilmente autentica richiesta di empatia  e comprensione. Si insinua comunque, nel tono dolceamaro e nelle accattivanti trovate visive che provengono anche dal bagaglio di innovativo autore di videoclip negli sperimentali anni ’90 e ‘2000 (chi non ricorda le prospettive, gli scenari, i corpi mutanti, scomposti e ricomposti per Bjork, Chemical Brothers e Beck, fra gli altri?), un sentimento di implosa disperazione o magari la consapevolezza ostinata e radicata di quello smarrimento generazionale di cui si parlava all’inizio che ha lasciato l’onda lunga di un contraccolpo, di uno stordimento, di una caduta. Non sembra esserci più l’allegra e vitale follia anarchica di Be Kind Rewind  – Gli acchiappafilm (2007), nel quale due scapestrati ai quali viene data in gestione una videoteca cancellano tutti i film impressi sulle videocassette e sono costretti a realizzarne a tempo record degli artigianali e surreali remake (che hanno più successo dei film originali). Un aspetto conformista, programmatico e algoritmico sembra aver preso il sopravvento e alle soluzioni sembrano essere subentrate le formule. Gondry parla dunque del suo disagio davanti a un cambiamento che omologa e standardizza l’originalità e l’unicità ,  uno stato delle cose al quale l’auteur francese non vuole arrendersi e oppone una terminale resistenza.

Il suo Marc non è però solo il termometro alterato di un’impasse, lo stadio nucleare  di un modo di concepirsi ed essere artista. C’è l’aggrapparsi tragicomico ad un teatro dell’assurdo che sfida lo scetticismo travestito da buon senso, come nella memorabile scena in cu appare Sting nel ruolo di se stesso , chiamato da Marc per registrare una parte della colonna sonora del suo film. Un evento attraverso il quale il realisateur sembra voler affermare ancora il proprio potere affabulatorio, la sue capacità di mettere insieme risorse incredibili, di concertare gli elementi , peraltro ancora analogici , dei quali si costituisce “una pellicola” ( non in senso letterale , ma nell’ evocativo significato di qualcosa di filmato e impresso). E la sequenza nella quale Marc dirige  una (basita) orchestra dal vivo, nel busterkeatoniano, disarticolato mood di gesti ed espressioni, restituisce lo spazio e il tempo del work in progress del creare.

Si tratta di una lotta, un corpo a corpo, con la materia della quale sono fatti i sogni anche se a cambiare, questa volta, sembra l’orizzonte: non quello esteso, spostato e rigenerato di un romanticismo che è un continuo fuoco d’artificio, l’esplosione della fantasia e della passione sulle macerie di una remota solitudine, blindata talvolta fino ad un’autistica autoreferenzialità (Se mi lasci ti cancello, L’arte del sogno);   nonostante la presenza delle solita, affascinante controparte femminile (l’incantevole Camille Rutherford, feticisticamente segnata da una cicatrice sul volto), il non consolatorio approdo resta un Io rimpicciolito e in dismissione che sullo schermo dove viene proiettato il film rocambolescamente concluso di Marc appare come un gigantesco e minaccioso roditore, mentre nel buio della sala è un intimorito topino che mette in atto la sua evasione, perché incapace di sostenere, al riaccendersi del luci,  tanto l’imbarazzo di un silenzio quanto il frastuono di uno scrosciante applauso.

In sala dal 2 novembre


Il libro delle soluzioni (Le livre des solutions)  – Regia e sceneggiatura: Michel Gondry; fotografia: Laurent Brunet; montaggio: Elise Fievet; musiche: Etienne Charry; interpreti: Pierre Niney, Francoise Lebrun, Camille Rutherford, Blanche Gardin, Frankie Wallach, Vincent Elbaz, Sting; produzione: Georges Bermann per Partizan Films; origine: Francia, 2023; durata: 103 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

 

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