La maman et la putain di Jean Eustache: un immenso capolavoro del cinema francese esce finalmente in Italia

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È sorprendente quanto sappiano essere ancora devastanti ed intense nella loro crudezza e verità le parole pronunciate dai personaggi  de La maman et la putain, disincantata e incarnata elegia di un menage a trois fino a un respiro che sembra non farsi mai ultimo, esondante gli argini di qualsiasi durata e formato cinematografici: opera torrenziale e dilatata nel cercare risonanze con i tempi e gli spazi della vita, arriva oggi in sala per la prima volta in Italia, a cinquant’anni dalla sua uscita (vinse il gran premio della giuria al Festival di Cannes 1973) , in una versione ridigitalizzata in 4K , a parlarci con la lingua esplicita e amara delle pulsioni (motivo per il quale ha subito per cosi tanto tempo l’ostracismo della nostra bigotta censura e viene distribuito comunque vietato ai minori di 14 anni) e la struggente tensione verso un romanticismo desaturato da sogno a bisogno, secondo la trasfigurazione impietosa e disperata dell’autobiografia del suo autore Jean Eustache (la cui  vibrante e bruciante esistenza terminò precocemente nel 1981, quando morì suicida a soli 43 anni).

La sostanza debordante della profana trinità composta da Alexandre/Jean Pierre Léaud, Marie/Bernadette Lafont e Veronica/Francois Lebrun, amanti irregolari in una Parigi mai cosi scenario dematerializzato da un bianco nero insieme livido e sublime, è inquadrata nella precisone formale di piani sequenza interrotti da campi e contro campi che si concretizzano nella presa diretta di un contatto e sfumano nell’altrove di una solitudine. Una commedia umana colta nel suo farsi e disfarsi in tracce di vita amorosa, palcoscenico verité di dialoghi/monologhi/confessioni che riecheggiano per  gli appartamenti dai letti sfatti , le vie delle belle di giorno, i locali di notti quasi selvagge,  tutti immersi in una rarefatta atmosfera di fumo, sesso e alcol, nello straniamento ipnotico e lucido di dissertazioni post ideologiche su un’umanità tra smarrimento e assenza, che confonde ormai significati e significanti, proiezioni e realtà. Tutto questo nel periodo immediatamente successivo al maggio francese del ’68, alle primavere rivoluzionarie che, per interposti proprio il corpo e la voce di Leaud, alzavano la testa e il volume nell’affermare che “La libertà non è un privilegio che si concede, ma che si prende”.

Nell’esperire ed esprimere una visione lungimirante e problematica che cominciava a sentire la frattura tra individuo e collettività, Eustache volge lo sguardo al proprio microcosmo di corrispondenze sentimentali e affettive e capovolge la prospettiva della Nouvelle Vague, sempre così attraversata dalle riscritture filmiche delle vicende personali dei suoi realisateurs: la Marie del film ,donna più matura che mantiene e si prende cura di Alexandre , si ispirava alla vera compagna di Eustache, Catherine Garnier, mentre Veronica , l’amante di una, nessuna e centomila notti , corrispondeva alla figura dell’altra donna del regista, l’infermiera di origine polacca Marinka Matuszewski (che tra l’altro, in un doppio sogno eyes wide shut tra verità e rappresentazione, appare nel film come controfigura del suo alter ego cinematografico…).

Ma se fino a quel momento il diario intimo si era fatto fenomenologia, messa in scena, destrutturazione politico/poetica  o celebrazione anti retorica e vitalistica delle emozioni, delle passioni e dei desideri della coppia/triade, in un arco di possibilità che andava dalla commedia anarchica e dissacrante ( La donna è donna di Godard), ai rohmeriani racconti morali (La mia notte con Maud), fino al chirurgico ritratto di una borghesia in noir (Stephane, una moglie infedele di Chabrol), questa volta si compie lo scorticamento all’osso, fino all’essenza e all’essenziale, di un rendez vous senza più utopie o divagazioni . Non è un caso che tra tutti quelli fin qui citati l’autore con il quale Eustache si pone maggiormente in antagonismo, anche e soprattutto in un gioco di rimandi e riflessi attraverso l’immagine rovesciata da 24 fotogrammi al secondo stampati in negativo, è Francois Truffaut: una questione posta fin dalla scelta di appropriarsi del suo stesso alter ego cinematografico Jean Pierre Léaud, correggendo di segno la buffa e tenera indole da post adolescente ribelle e da trasognante giovane adulto di Antoine Doinel nella malinconia performativa e nell’impotenza ora rabbiosa ora depressa di Alexandre. Come se ci fosse l’urgenza di annunciare la fine di una stagione (la giovinezza già appassita nel trucco che scende lungo gli occhi piangenti di Veronica durante un riflessione tutt’ora straziante sul corpo femminile nel conflitto tra godimento e  maternità) e l’imbocco di un viale del tramonto percepito e sentito non tanto come la deterministica e inesorabile presa di coscienza di una sconfitta, bensì come fantasmatica suggestione evocata  in un vissuto quotidiano. Un tarlo consumato nella gelosia auto ed etero distruttiva di Marie che accetta Veronica all’interno della sua relazione, solo in quanto prova tangibile della sua fragilità e dipendenza nei confronti di Alexandre.

Ma questo Alexandre probabilmente non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato prima il Claude de Le due inglesi, forse il più duro e disperato film di Truffaut, reduce da un tentato suicidio e da un periodo trascorso in una clinica psichiatrica dopo essere stato abbandonato e rifiutato da Catherine Deneuve, della quale aveva precedentemente amato la sorella Francois Dorleac (morta in un incidente stradale a soli 25 anni). E il romanzo di Henri-Pierre Roché, Deux Anglaises et le continent, parlava appunto di un giovane francese diviso dall’attrazione e dalla passione per due sorelle, che, per la morte di una e per la separazione dall’altra, perderà entrambe. Diversamente da Jules e Jim (sempre tratto da un romanzo di Roché e sempre con al centro una relazione a tre), Truffaut comprime la dimensione giocosa e gioiosa, e scende più nei meandri di un’ossessione carnale, sensuale, fisica. Allo stesso modo  cambia il corpo di Jean Pierre Léaud, forgiato dal calor bianco dell’eros, nel passaggio dalla macchia di sangue verginale della sorella inglese di Truffaut  impressa a tutto schermo al sangue mestruale di Veronica che appare a chiazze sul pavimento al risveglio dalla prima notte con Alexandre:  viscerale testimonianza di un piacere che non esclude la lotta e la sofferenza , nell’autenticità di gesti slabbrati, reiterati, goffi , famelici, in una commistione inedita tra tenerezza e brutalità (Alexandre chiederà a Veronica in  quale dei due modi preferisce fare l’amore, e lei gli risponderà di apprezzarli entrambi). Ed è  proprio in questo corpo a corpo a distanza con Truffaut, che Eustache riesce  a liberare il cinema francese , espanso nei suoi elementi basici (le parole, i corpi attoriali , i luoghi)  e riportato alle deleuziana ontologia delle sue immagini tempo e movimento, proiettandone la forza terminale e germinale in opere successive,  non tanto epigone di un’impossibile lezione, quanto rimarcanti  la stessa libertà e audacia di mente e di cuore.  Su tutti svetta Ai nostri amori, tra le opere più potenti e ispirate di Maurice Pialat, altro cineasta dallo sguardo abissale e fuori norma (che aveva recitato per Eustache in Mes Petit amoureuses, realizzato l’anno successivo La maman et la putain). Nella figura già segnata e dolente della quindicenne Suzanne, alla scoperta delle prime esperienze sessuali in un clima familiare esasperato e controllante fino alla manesca brutalità ( e il padre è impersonato con edipica e massiccia presenza dallo stesso Pialat) sullo sfondo di un desolante Parigi di periferia, si scorge la stessa inquietudine e insofferenza della Veronica eustachiana. La condivisione del suo rifiuto ostinato , e talvolta della sua rassegnata accettazione, di indossare alternativamente  le maschere di donna/madre e donna/puttana in uno stigma sociale e culturale radicalmente introiettato ed espulso dal processo in cui avviene la partenogenesi di una nuova identità, di un’altra scelta . Una lunga sequenza di movimenti falsi e veri  filmati nella loro essenza esplosiva ed implosiva, nell’ immobilità di un close up,  nelle accelerazioni di una fuga e nei rallentamenti  di un pedinamento; nello scarto tra ciò che siamo e ciò che raccontiamo di essere, confondendo i due piani fino ad una sovrapposizione/mistificazione, l’autoinganno di un falso sé nel nome del quale, prendendo a prestito una delle possibili riflessioni sul cinema di Fassbinder , ci comportiamo e agiamo come se fossimo i protagonisti di un film.

Ecco, uno dei tanti meriti che rendono necessaria la visione de La maman et la putain, sta proprio nell’aver restituito la centralità e la radicalità di un full-frontal a una generazione che non aveva più nascondigli e non voleva più perdersi in evasioni , ma sentiva la necessità di attraversare al più presto quel vuoto di valori e di entusiasmo che si annunciava, senza la paura di guardarsi nello specchio scuro di una dissolvenza in nero. Non più silhouettes di un immaginario rivisitato,  ma piccoli, patetici individui ridotti ai minimi termini di una conoscenza carnale.

In sala dal 13 marzo 


La maman et la putain Regia e sceneggiatura: Jean Eustache; Fotografia: Pierre Lhomme; Montaggio: Denise de Casabianca e Jean Eustache; Interpreti: Bernadette Lafont, Jean-Pierre Leaud, Francois Lebrun, Isabelle Weingarten; Produzione: Vincent Malle, Bob Rafelson; Origine: Francia, 1973; Durata: 219 minuti; Distribuzione: I Wonder Classics.

 

 

 

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