L’amore secondo Dalva di Emmanuelle Nicot

  • Voto

Il piccolo corpo di una ragazzina che sembra precipitare nell’immagine direttamente da un film dei Dardenne, irrompe nel suono di un urlo lancinante sul nero dello schermo. È questo l’inizio de L’amore secondo Dalva, esordio nel lungometraggio cinematografico della regista francese Emmanuelle Nicot premiato alla Semaine de la critique dello scorso Festival di Cannes, che, nonostante il fuorviante titolo italiano più appropriato ad una commedia sentimentale (in originale è il più secco e immediato Dalva, il nome della protagonista), è declinato in un tono da crudo dramma sociale che, con delicatezza e lucidità, si fa mano a mano racconto di formazione e acquisizione di una consapevolezza fisica ed emotiva. Al centro vi è appunto la figura cangiante di Dalva, dodicenne che viene presentata sotto le quanto mai false spoglie, trucco, acconciatura e abbigliamento, della precoce amante di un uomo maturo, nella fattispecie il coercitivo e manipolatorio padre abusante: l’uomo non ha però agito praticando una brutale violenza, ma esercitando su quella fragile figlia abbandonata dalla figura materna un’alienante pressione psicologica, a causa della quale l’interno/inferno piccolo borghese della loro casa è diventato lo specchio oscuro di un focolare domestico. Dalva è infatti ostinatamente e rabbiosamente convinta di essere la compagna di suo padre, che quel tipo di relazione sia possibile e praticabile , anche da un punto di vista sessuale, perché così le è stato insegnato (anzi, in tal caso è più corretto utilizzare il termine insinuato) dall’adulto che le è stato affianco e che ha pervertito la prospettiva della cura e dell’amore genitoriali.

Nell’incipit , in effetti, c’è una sequenza che ricorda Rosetta (1999), ma che ne cambia il senso:  costretta ad essere separata dall’uomo di cui crede essere stata la compagna, Dalva si ribella ai poliziotti e agli assistenti sociali, attaccandosi agli stipiti delle porte e opponendosi con la sua acerba fisicità, camuffata dall’apparenza di donna vissuta, a quella che ritiene un’ ingiustizia, esattamente come l’indomita eroina dardenniana si ribellava barricandosi e scontrandosi con i luoghi e gli oggetti della precarietà  del mondo del lavoro. Si tratta di un movimento simile, attraversato dalla stessa forza e dalla stessa tensione contraria, ma la direzione è diversa, sfalsata in un rapporto con la realtà, anzi con la connessione alla sua natura contraddittoria e ambivalente. Rosetta, nel tratto di un istintivo orgoglio, rivendica un diritto ad esistere, ad essere presenza viva, pulsante, famelica in un asfissiante contesto che vorrebbe soffocare  e mettere  letteralmente in nero persino la sua identità presociale di sopravvissuta e sopravvivente; ma, altrettanto sopravvissuta e sopravvivente, Dalva non può invece che aggrapparsi al meccanismo inconscio della rimozione e alla fiducia cieca nelle parole del mistificante genitore per provare a restare solida di fronte all’effetto disgregante di una rivelazione tanto traumatica. Ma se Rosetta continua ad aggirarsi e a salvarsi continuando a percorrere i margini che separano la (in)tollerabilità della vita dall’abisso della morte (nella riconquista della centralità dello sguardo verso un fuori campo che è anche riconoscimento dell’altro), in Dalva ci sarà un più instradato, per quanto accidentato, percorso di elaborazione e ricostruzione della propria storia.

Lo sguardo che rimane fuori nella concitata prima scena in questo caso non è quello salvifico della relazione, ma l’ossessione di un rapporto tossico successivamente smascherato nel contro campo di un confronto in carcere tra la ragazza e il padre carnefice che ammette con il capo chino le proprie responsabilità e innesca in lei un processo di liberazione ed emancipazione. Più che sulla inevitabile, per quanto non invadente o troppo fagocitante, struttura drammaturgica che prevede gli scontri-incontri della ferita e smarrita protagonista con gli educatori e i compagni della casa-famiglia nella quale viene temporaneamente mandata a vivere, e la conseguente evoluzione nel cominciare a costruire sani e risanati legami affettivi (anche con la madre che torna a rivendicarne con mestizia e dolcezza la custodia, pur senza precisare in maniera più convincente, chissà se volutamente o per un’incoerenza della sceneggiatura, le ragioni di quell’allontanamento), la regia della Nicot conquista e convince per altro. Il racconto di questa trasformazione avviene sulla pelle della  giovanissima, straordinaria attrice Zelda Samson, che cambia i propri connotati non solo nell’aspetto più impattante e superficiale del look , ma nell’essenza profonda di una maniera di camminare,  di muoversi , di quegli occhi espressivi  prima chiusi nel rifiuto  e poi aperti nello sbigottimento e nella curiosità  verso un mondo, la cui visuale è finalmente  riportata, in una progressiva spoliazione dall’artificio morboso dello sguardo paterno, ad altezza di bambina.

Sembra di ritrovare a un certo punto la luce e la delicatezza di Stella, la piccola protagonista dell’eponimo film di Sylvie Verheyde (un piccolo gioiello del 2008 da recuperare assolutamente), ambientato in una periferia parigina anni ’70  sognate e livida insieme, senza il presupposto tragico e radicale della storia di Dalva (non ci sono abusi o violenze famigliari quanto meno esplicite, anche se Stella rischia nel contatto con i maturi avventori del bar gestito dai suoi genitori), ma con quella medesima necessità che si fa desiderio di essere viste e inquadrate in un loro peculiare autenticità. Per Dalva si tratta in primis di svincolarsi dallo stigma della figlia molestata, di prendersi un tempo e uno spazio (molto belle le sequenze  di lei che si chiude negli armadi percepiti come luoghi di sospensione, riflessione e passaggio)  nei  quali sentirsi e ascoltarsi, rimanendo legittimamente in una dimensione di confusione e spaesamento, in un’ attesa che passa anche per un gesto e una promessa, per la possibilità di immaginarsi ancora un futuro.

Uno di quei personaggi che verrebbe voglia di andare a trovare dopo l’ultima inquadratura del film per vedere com’è diventata la sua vita e se magari anche lei, come Stella, ha imparato a danzare sui pattini, tra le bolle di sapone.

In sala dall’11 maggio


L’amore secondo Dalva (Dalva) – Regia e sceneggiatura: Emmauelle Nicot; fotografia: Caroline Guimbal; montaggio: Suzana Pedro; musica: Frederic Alvarez; interpreti: Zelda Samson, Alexis Manenti, Fanta Guirassy, Marie Denarnaud, Jean-Louis Coulloch, Sandrine Blancke; produzione: Julie Esparbes, Delphine Schmit per Helicotronc , Tripode Productions; origine: Belgio/Francia, 2023 ; durata: 83’; distribuzione: Teodora film.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *