Lunana: il villaggio alla fine del mondo di Pawo Choyning Dorji

  • Voto
4.5

Lunana è il villaggio più isolato del Buthan. Situato a circa 4.800 metri di altezza, abitato da una cinquantina di persone (56 per precisione), la vita si svolge con le stagioni e il sito è raggiungibile solo fino all’autunno, prima di finire sotto coltri di neve e rimanere isolato, a otto giorni di cammino a piedi tra le montagne dall’ultimo centro abitato. È qui che viene mandato, controvoglia, dal governo a fare l’insegnante il giovane Ugyen, con in tasca un depliant dell’Australia dove desidera trasferirsi, appena arriva il visto, per tentare una carriera di cantante. La sua attitudine è avversa, non vuole insegnare ma non è riuscito a sottrarsi, va a fare un tentativo ma è certo di non resistere. A Thimpu lascia la nonna anziana che lo ha invitato a non sottrarsi ai propri doveri e una fidanzata a cui non sembra troppo legato. Le tappe, fisiche e emotive, del viaggio per raggiungere Lulana portano in nuce tutti gli elementi che esploderanno durante il soggiorno nel più completo isolamento: il contatto forte con la natura, la necessità obbligata all’adattamento, la sincerità sconcertante con cui comunicano le persone che vivono da sempre in quelle montagne, la spiritualità manifesta in ogni pietra, nella lenta masticazione dello yak, nel cantare davanti a una delle catene montuose più maestose del mondo.

La trama di Lunana va dritta dove deve andare, senza scossoni o curve o sorprese esplosive da film americano: la semplicità di narrazione però, qui equivale a una semplicità di arrivo, destinazione finale di un percorso umano interiore di spessore profondo.

I panorami infiniti rispecchiano la purezza di vita dei personaggi nati cresciuti e vissuti tra tanta bellezza, a tratti desolanti, spesso avvolgente, sempre vincente su ogni altra piccola miseria. Neppure lassù le persone sono esenti da sofferenze, lutti, difficoltà che addolorano: semplicemente ci si differenzia nell’attitudine di provare ad accettarle. La vita è scandita dal corso della natura, dal cielo che sembra vicinissimo, dalla violenza del vento, dall’isolamento nel bianco invernale.

I bambini hanno visi accesi dalla voglia di conoscenza, sono arguti, malleabili come fango (o sterco di yak), hanno cuori espansi come spugne gonfie di acqua di mare. La coscienza della differenza tra chi vive nel villaggio e chi è solo di passaggio rende la comunicazione per certi versi più profonda, come quando si racconta un segreto, che non si può condividere con nessuno, nel buco naturale di un albero (il finale di In the mood for love, Wong Kar-wai, 2000 – tempio di Angkor Wat in Cambogia).

I film orientali spiazzano gli occidentali a digiuno: la dilatazione del tempo narrativo, lo scambio verbale ridotto all’essenziale, musica solo diegetica, montaggio lineare senza salti temporali o inserti onirici o surreali (in questo particolare caso). La cinematografia contemporanea pressoché mondiale ha allenato occhi e orecchie a una velocità supersonica assai distante pure dall’alienazione della vita moderna: tornare a seguire il ritmo del proprio respiro diventa una esperienza quasi trascendentale, di estrema difficoltà.

E invece il maestro Ugyen, al momento dell’imminente arrivo dell’inverno – e di conseguenza della sua partenza – fatica a staccarsi dai luoghi fisici (che sono divenuti anche mentali), dalla stanza che ha abitato, dall’aula che ha abbellito, da Norbu – lo yak porta bene – che ha ospitato nella scuola, dai suoi coloratissimi alunni, dalla giovane pastora che gli insegnato la canzone “Il virtuoso yak Lhadar” davanti alla catena dell’Himalaya al confine tra Bhutan e Tibet, dal sindaco del villaggio che, con pochi giri di parole, gli ha detto che loro due hanno una connessione karmica.

I riti di benevolenza, le bandierine colorate, le pietre posate sulla fronte e poi depositate a formare una scultura piramidale dai passanti del valico a cinquemila metri, tutto questo è impossibile da scordare. Diventerà bagaglio del giovane aspirante cantante che invece di finire in Australia ha vissuto tre stagioni nel villaggio più isolato del Buthan.

La naturalezza nella recitazione, la trama lineare, i paesaggi mozzafiato contribuiscono a rendere questo film unico nel suo genere: i protagonisti sono i veri abitanti di Lunana, non compiono azioni innaturali né fingono di interpretare dei ruoli scritti per loro: assumono su di sé una storia verosimile, efficace e veritiera che racconta – senza finzione – un trancio di vita che potrebbe accadere davvero. Non si tratta di un documentario etnografico quanto di un delicatissimo e rispettoso ritratto di un posto fuori dal mondo dove, non tutti, ma alcuni sono felici come da nessuna altra parte (come recita una propaganda governativa buthanese: quasi una felicità obbligatoria). Insomma un capolavoro.

In sala dal 31 marzo


Lunana: il villaggio alla fine del mondo; Regia: Pawo Choyning Dorji; sceneggiatura: Pawo Choyning Dorji, Stephanie Lai, Steven Xiang, Jia Hongling; fotografia: Jigme Tenzin;  montaggio: Ku Hsiao-Yun; interpreti: Sherab Dorji, Ugyen Norbu Lhendup, Keldem Lhamo Gurung, Pem Zam; produzione: Pawo Choyning Dorji, Stephanie Lai, Steven Xiang, Jia Hongling; origine: Buthan, 2021; durata: 110’; distribuzione: Officine Ubu.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *